Un'infermiera dell'ospedale riversa sulla tastiera del computer dopo un turno massacrante ai tempi del coronavirus
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Non è solo una questione di sanità

 

In questi giorni di crisi inedita da coronavirus si moltiplicano i messaggi, le esortazioni, finanche i meme sui social che invitano all’ottimismo: «Andrà tutto bene», è l’adagio.

Il tunnel nel quale siamo entrati prima o poi finirà, è chiaro. Questo virus non ha la forza di mettere a rischio la nostra sopravvivenza come specie sul pianeta. L’emergenza è dovuta al rischio di ingolfare i reparti di terapia intensiva cui deve ricorrere circa il 10 per cento della popolazione colpita. In Italia sono circa 5 mila i posti disponibili nelle terapie intensive, tenuto conto che le altre patologie per cui si deve ricorrere all’intensiva non sono andate in vacanza, occorre evitare che troppe persone contraggano il virus contemporaneamente per poterle curare adeguatamente.

La questione non è quindi se ne usciremo, ma come ne usciremo. Alcuni cambiamenti sono già in atto. L’encomiabile lavoro svolto dalle strutture pubbliche, nell’arco di un paio di settimane ha fatto impallidire una serie di retoriche sulle privatizzazioni e/o sulla scarsa produttività del pubblico che duravano da più di un trentennio. Ci sono anche messaggi che toccano corde profonde – come le foto di dottori e dottoresse, infermieri e infermiere, ripresi dopo essersi addormentati su scrivanie o su bivacchi temporanei perché spossati dalla mole di lavoro svolto – che stanno dando una nuova versione del reale e potrebbero essere in grado di contribuire alla costruzione di un nuovo senso comune. E a ben guardare, è di questo che abbiamo bisogno.

Occorre però uscire dall’ambito strettamente sanitario per favorire la cattura di questo vento nuovo. Perché la sanità non è l’unico settore strategico che esce da anni di tagli. In questa sede si può procedere poco più che per spot, che però possono aiutare a capire.

Nelle scuole italiane, ad esempio, a fronte di circa 260 mila bambini e ragazzi con disabilità, sono al lavoro solo 150 mila insegnanti di sostegno. Per di più, almeno un terzo di loro, sono supplenti senza specializzazione, spesso nominati ad anno scolastico già iniziato. Questo è un oltraggio alla continuità educativa, e anche alla tanto sbandierata inclusione, poiché mette gli alunni con disabilità nelle condizioni di dover ricominciare da capo ogni anno. Una difficoltà che si riflette sulle classi (va ricordato che l’insegnante di sostegno è a disposizione dell’intera classe), nel lavoro di programmazione degli insegnanti, e in quello del singolo supplente, che ogni anno si ritrova a dover ricominciare da capo anche lui, alle prese con una persona con problematiche ed esigenze differenti da quella con cui si era lavorato l’anno prima.

Ancora: viviamo in un paese in cui il 91 per cento dei Comuni è a rischio idrogeologico con tre milioni di famiglie che convivono col rischio di sprofondare o essere sommerse dai detriti. Ma un tema così pesante è pressoché escluso dal dibattito pubblico.

Quelle appena accennate sono solo due delle questioni in cui è necessaria un’azione di studio, coordinamento e investimento pubblica. Per due motivi: 1) perché si tratta di settori, insieme alla sanità, non profittevoli, a meno di non voler sottoporre le necessità di cura, di formazione e di incolumità della popolazione alla condizione del guadagno da parte di qualcuno; 2) perché necessitano di uno sguardo ampio, sia su scala territoriale che di programmazione, che solo una struttura vocata alla esclusiva soddisfazione dei bisogni, cioè senza scopo di lucro, capace di elaborazione di dati, e di avvalersi di competenze articolate è in grado di offrire.

Questo è quello che occorrerebbe, se si desidera vivere in una comunità che appresti un minimo di condizioni decenti per tutti. C’è anche chi la pensa diversamente. E cioè – detta in maniera assai semplificata – che gli individui debbano essere spinti da necessità per dare il meglio di sé, e che quindi troppe garanzie, nel complesso, siano una zavorra per la società. Ne deriva che chi non è in grado di garantirsi cure decenti, e non ha abbastanza soldi per assicurare studi ai propri figli, debba rimanere indietro, perché questo è uno sprone per andare avanti e per fare così il bene dell’intera società. Da questo ragionamento deriva che le tasse sono pressoché inutili, vanno ridotte al minimo, poiché i servizi – inclusi quelli strategici per il benessere di una società, come quelli di scuola, sanità e di garanzia dell’incolumità pubblica – possono essere tranquillamente garantiti da privati che, legittimamente dal loro punto di vista, ci traggono sopra profitto.

C’è un però. Perché negli ultimi trent’anni, quelli che la pensano così, cioè, per usare degli slogan, privato è bello, meno tasse per tutti, eccetera, hanno detto la loro in lungo e in largo. Gli altri, quelli che invece avrebbero almeno in teoria a cuore la universalità del servizi essenziali, prima si sono intimiditi, poi hanno fatto loro le parole d’ordine di tagli alle tasse e ai servizi, e successivamente le hanno anche trasformate in provvedimenti, quando sono arrivati al governo. Ne è conseguito che a difendere l’universalità sono rimasti in pochi, spesso dipinti come mostri fuori dal tempo. Così siamo slittati anche da un punto di vista terminologico che descrive bene la traslazione. Avevamo le unità sanitarie locali, oggi ci sono le aziende sanitarie locali; gli ospedali sono diventati aziende ospedaliere. Abbiamo introdotto cioè il principio del profitto, mascherandolo da economicità, pressoché in ogni settore della vita. Abbiamo messo al bando le caste, salvo poi non toccare privilegio alcuno, e abbiamo creduto che i lavoratori pubblici fossero in sé nullafacenti, ci siamo ubriacati di scoop giornalistici a buon mercato sui «furbetti del cartellino» e di leggende metropolitane sui fannulloni, mentre, di converso, ci siamo persuasi che il privato fosse la quintessenza della virtù pubblica, mentre la virtù che contraddistinngue il privato è quella di farsi gli affari suoi. Legittima, per carità, ma inadeguata se la si fa assurgere a principio regolatore della vita in comune.

Non solo. In questa orgia di tagli e privatizzazioni alimentati da una pubblicistica e da un giornalismo a senso pressoché unico, abbiamo schiacciato la parola privato fino a farla coincidere con una categoria, quella di imperi economici con bilanci superiori anche a quelli di regioni di media grandezza. Così, oggi, pressoché a nessun Comune viene in mente, nel momento in cui si cambia la destinazione d’uso di un parco per erigerci sopra l’ennesimo supermercato, di sentire cosa ne pensino i privati, cioè gli abitanti della zona, perché per privato si intende colui che fa l’investimento, non i poveri cristi che lo subiscono. E quando si pensa ad affidare i servizi pubblici ai privati, si dà per scontato che questi siano multiutilities con ricavi a molti zero, quasi mai che possano assumere le sembianze di un’utenza che sotto forma di cooperativa si auto-tutela e si auto-garantisce le forniture di beni essenziali. Eppure è possibile.

Quindi, ne usciremo? Sì, ma come dipende da noi, dal nostro riuscire a catturare il vento di questi giorni. E forse ci potrà aiutare anche la foto di quell’infermiera sopraffatta dal sonno dopo ore e ore di lavoro col capo riverso sulla tastiera di Nella un computer.

*Articolo pubblicato il 12 marzo 2019 su www.ribalta.info (fonte originale)

Nella foto, un’infermiera dell’ospedale di Cremona stremata sulla tastiera ai tempi del coronavirus

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