Cronache umbre ha pubblicato un articolo molto ben documentato di Michele Guaitini in cui si dimostra come il cosidetto Nodo di Perugia e la sua variante minore, il Nodino, sarebbero opere che oltre a mangiare centinaia di milioni e violentare zone di pregio agricolo e ambientale, non apporterebbero alcun beneficio in termini di snellimento del traffico che imbottiglia la circonvallazione del capoluogo nelle ore di punta; non consentirebbero cioè neanche di raggiungere l’obiettivo dichiarato dai loro fautori. I problemi però non si esauriscono nell’orizzonte delle opere in sé e dei danni che provocherebbero. Ci sono almeno altre tre considerazioni che travalicano questa contingenza e che vale la pena accennare poiché attengono all’assetto della regione nel suo complesso.
La prima riguarda la diffusione delle notizie e la conseguente circolazione delle informazioni e delle idee. La rassegna stampa sulla questione del Nodo trabocca di articoli che decantano le lodi dell’opera sostenendo o riportando l’opinione di chi sostiene che con la sua realizzazione la circonvallazione perugina diventerebbe un paradiso di scorrevolezza. Non è vero; e per la disarticolazione della tesi rimandiamo all’articolo citato. Ma la domanda che ci interessa porre qui è la seguente: com’è possibile questo capovolgimento e questo cammino a senso unico? Accade perché nelle redazioni locali triturate dai ricatti di una crisi verticale, spessissimo non c’è il tempo per vagliare, verificare, mettere in discussione i poteri e ciò che questi sostengono: urge pubblicare, per di più in tempi strettissimi. Questo porta sempre più spesso alla coincidenza della informazione, che è il frutto della mediazione giornalistica, con la comunicazione, che è il prodotto degli uffici stampa. Alle persone che redigono gli articoli, strette nella tenaglia dei tempi corti e della mole di lavoro da svolgere, restano solo le fonti ufficiali a cui abbeverarsi, cioè in questo caso quella dell’assessorato regionale ai Trasporti e della Regione tout court, e delle associazioni di categoria imprenditoriali; tutti favorevoli alla realizzazione di un’opera da cui guadagnerebbero largamente, chi in denaro, chi in posizionamenti. Tutto questo, unito a una accondiscendenza strutturale nei confronti delle stesse fonti ufficiali da parte di una categoria storicamente contigua ai poteri, porta al paradosso di trasformare in presunto rimedio un’opera-sanguisuga di denaro pubblico e ambiente.
La seconda questione, strettamente connessa alla prima, è quella del rapporto tra i poteri, che per definizione perseguono i propri interessi, e la comunità regionale. Senza una sorveglianza competente, indipendente e determinata, per i poteri si aprono praterie sconfinate. La narrazione che viene confezionata quotidianamente dagli uffici stampa e dalle dichiarazioni di cariche politiche o imprenditoriali approda senza vaglio su carta, web, radio e tv contribuendo alla omologazione di un coro pubblico che asseconda la direzione imposta dagli interessi del potere stesso. Ciò fa sì che gli interessi dei singoli poteri vengano sovrapposti a quelli pubblici fino a farli forzatamente coincidere con essi; anche quando dovrebbero confliggerci, come in questo caso.
Il terzo punto è che di questa commistione indigesta, la prima vittima è un dibattito pubblico ammorbato dal vizio di fondo della mancata messa a fuoco delle questioni, fattore che produce scelte pubbliche che non corrispondono all’interesse comune, cioè della maggioranza delle persone. Nel caso di specie ad esempio, la scelta non è solo sul fare o meno un’opera dannosa e inutile per i più e profittevole per pochissimi. C’è in ballo anche l’idea di futuro di una regione. Un futuro che si potrebbe scegliere tra opzioni diverse: continuare a battere la vecchia strada delle vecchie infrastrutture seguendo il pezzo di imprenditoria ad esse legata, o voltarsi verso l’orizzonte necessario dell’innovazione e del cambio di visione in senso ambientale (e digitale) del produrre, del consumare, del viaggiare e del garantire servizi.
Il risultato di quello che è un vero e proprio dopaggio del dibattito, è che mentre tutto intorno si parla di transizione verde e digitale – che sarebbero delle mezze rivoluzioni, se autenticamente perseguite – qui da noi si procede alla cieca, pompando a mezzo stampa un’opera inutile e dannosa. Per di più progettata decenni fa, quando di cambiamento climatico e di paradigma ambientale parlava solo chi andava a protestare contro i G8.