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Buoni spesa, l’ottusità (o la cattiveria?) di Perugia e Corciano

 

Un provvedimento al contrario, non si capisce come altro definirlo quello dei comuni di Perugia e Corciano per disciplinare l’erogazione dei buoni spesa distribuiti dal Governo da destinare alle persone in difficoltà a causa della crisi generata dal coronavirus. Se non fosse un paradosso, si potrebbe concluderne che i due municipi ambiscano a fregiarsi della palma della discriminazione.

Sta di fatto che il capoluogo e il confinante municipio-satellite sono gli unici due centri della regione con un numero di residenti superiore ai 15 mila a tagliare fuori dalla fascia dei possibili beneficiari dei buoni spesa le persone straniere che non abbiano un permesso di soggiorno di almeno cinque anni, dal momento che viene richiesto il possesso del permesso «per soggiornanti di lungo periodo», che come si legge nel sito della polizia di stato, viene concesso, appunto, solo a chi è in Italia da almeno cinque anni. Non se ne capisce il motivo. Anzi. Ci sono diverse ragioni che militano a favore di una decisione esattamente contraria, cioè che avesse allargato quanto più possibile la platea dei possibili beneficiari.

Per inquadrare la questione, va sottolineato che in tutti gli altri comuni umbri di una certa consistenza, gli aiuti vengono concessi a chiunque sia residente e in condizioni di necessità. Essere residente, per uno straniero, significa essere in regola, cioè avere il permesso di soggiorno in tasca. Il comune di Gubbio prevede addirittura che si possa fare domanda anche se non si è residenti lì, ma solo domiciliati, e però impossibilitati a causa delle restrizioni di movimento a tornare nel proprio comune di residenza. A Perugia e Corciano invece, se sei straniero e non risiedi in Italia da almeno cinque anni, pur essendo in regola, puoi avviarti a morire di fame, o a rubare per te e i tuoi figli, qualora il coronavirus ti abbia messo in difficoltà; evento non remoto, diciamo. Va rilevato a questo proposito che del totale dei circa 46 mila lavoratori stranieri in Umbria, solo poco più del 40 per cento (circa 20 mila) sono stati in teoria fino a questo momento risparmiati dalla crisi del virus. Sono quelli che lavorano in agricoltura o come collaboratori domestici e badanti, attività che figurano tra quelle essenziali individuate dal governo. Gli altri sono tutti potenzialmente a rischio.

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Ma c’è un di più che depone a favore della ottusità delle restrizioni perugine e corcianesi. Secondo l’Istat, una famiglia su tre di quelle residenti in centro Italia e composte da stranieri è in stato di povertà relativa. L’incidenza della povertà relativa per gli italiani è invece molto più bassa: al 5,4 per cento. Bene. In condizioni del genere che ti pensano a Perugia e Corciano? Di tagliare fuori dai benefici proprio una parte consistente di questa fascia di popolazione a maggiore rischio di annegamento. Un po’ come se in una barca nel mare in tempesta si scelga di distribuire la ciambella di salvataggio a chi sa nuotare e la si neghi a chi non è mai stato in acqua.

E si badi. Non si negano chissà quali benefici e lussi, ma pacchi di pasta, barattoli di conserva di pomodoro, latte e pane. E non li negano in condizioni normali, ma in un momento in cui siamo tutti costretti a stare barricati in casa per combattere un nemico invisibile. Se non fosse ottusità sarebbe cattiveria. E delle due chissà qual è la più pericolosa.

A Perugia il capolavoro al contrario condanna all’indigenza potenzialmente circa settemila persone, a Corciano più di seicento. Si tratta del 30 per cento di migranti residenti che hanno un permesso di soggiorno cosidetto breve, come rileva l’Istat. L’unica realtà in Umbria che ha avuto il merito finora di sollevare il velo sulla gravità della cosa è stata l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, che sostiene anche che le disposizioni siano «contrarie alle vigenti norme di legge». È già qualcosa, ma forse ancora non abbastanza per demolire questo monumento all’ottusità. O alla cattiveria.

Foto da www.regione.umbria.mediagallery.it

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