Commenti

Di fame e di sete

 

Il mestiere del migrante, una sorta di professione a delinquere secondo il nuovo indirizzo europeo, non è mai stato facile. L’estirpazione dalla propria terra per ragioni indotte da circostanze create dalle leggi scritte e non che regolano il mondo in nome dei rapporti di forza segna un distacco traumatico con le proprie radici. Lasciare affetti certi per tuffarsi nel mare agitato che divide il mondo costretto a subire da quello designato a comandare presuppone una buona dose di disperazione come punto di partenza e un’altrettanta buona dose di speranza come carburante per un tragitto a ostacoli crescenti. Il mare, da via preferenziale verso nuove scoperte, da unione di terre e centro di mutualità spontanea e formalizzata sembra tornato a essere quel luogo di conflitto permanente dove marine armate si combattevano senza esclusioni di colpi per rivendicare la supremazia di bandiere e “civiltà”. A dire il vero anche la terra non lambita dalle onde marine, con il moltiplicarsi di reticolati sempre più invasivi a difesa di territori designati dall’aleatorietà di confini pregressi e di confini da designare attraverso il sempreverde metro delle guerre, in quanto a ostacoli crescenti frapposti al peregrinare umano non può considerarsi certo da meno. E visto che tanto il mare agitato quanto i reticolati a invasività crescente nulla possono contro quel misto di disperazione e speranza che muove moltitudini, che alternano la navigazione al cammino e che osano sfidare l’ordine immutabile del sistema mondo disposte a pagare il prezzo di tale disobbedienza sulla propria pelle, la parte ricca, meta di un pellegrinaggio panico che nulla ha di sacrale, non sta trovando meglio da fare che rifarsi al caritatevole andante del: fermi tutti che vi si aiuta a casa vostra.

Non contento di compartecipare a guerre in ogni dove, addossandone sempre e immancabilmente le responsabilità al contendente, guerre che sembrano caratterizzate da un infinito volontario piuttosto che da inevitabili contingenze indotte; non soddisfatto dell’asimmetria geografica (e non solo) che da sempre caratterizza il capitalismo, l’occidente sembra sempre più lanciato verso una sorta di colonialismo difensivo, con la presunzione di cristallizzare i danni prodotti dal precedente colonialismo predatorio di terre e risorse, fatto di allarmismi diffusi, intolleranze esponenziali, lager da residenze temporanee e fantomatici aiuti, che nulla hanno di solidale e tutto mostrano di ipocrita, da dirottare verso i governanti, che siano figli di democrazie o autocrazie poco importa, delle terre di partenza migratoria. Non sradicate le vostre radici, ciascuno di noi sa quale importanza abbiano il sangue e la terra, non indebolite le vostre patrie, ognuno di noi riconosce sacralità al luogo natio, non lasciate partire i vostri figli verso un viaggio inutile e pericoloso, non abbandonate le vostre madri per un viaggio inutile e pericoloso. Lo facciamo per la vostra incolumità pensando al benessere comune, questo lo slogan martellante. Non partite e vi si aiuta, declamano a piena voce Europa e Stati Uniti; partite e vi si farà la guerra, recita l’alternativa concreta e non declamabile per chi disobbedisce.

A leggere le contraddizioni dell’oggi svestendole delle ipocrisie bonarie con cui sono ammantate vengono i brividi. Non serve leggerle approfondendole, basta fotografarle senza scavare, basta la superficie, quell’apparenza che è tutto fuorché sviante nella nostra contemporaneità così crudele da ridicolizzare la valenza popolare del più nobile proverbio. E la fotografia ci dice che l’Europa impotente si condanna alla guerra guerreggiata per bocca di Macron e alla pace invocata da Orban attraverso l’intercessione del futuro e già vecchio presidente Usa Donald Trump; che l’Europa e gli Usa impotenti e nolenti lasciano morire intere generazioni palestinesi assecondando (di fatto) il diritto di vendetta del più destro (storicamente) governo israeliano; che l’Europa e gli Usa tanto per restare nell’internità delle loro democrazie vedono primeggiare nel susseguirsi delle tornate elettorali chi rivendica discrimine e intolleranza verso i più deboli a suon di bordate scioviniste.

È in questo clima di crescente disinteresse verso la politica – basta analizzare i dati sull’astensionismo – e di esponenziale innalzamento dell’aggressività, non solo annunciata, della politica stessa, che l’uomo sta perdendo se stesso, che il restare umani risulta impresa sempre più ardua, che l’aiutare tanto per aiutare senza pretendere nulla in cambio è divenuto peccato capitale. È in questo clima che i disperati muoiono di stenti oltre che di impedimenti, bombe e vessazioni. È in questo clima che un mare sorvegliato al pari delle banche centrali riesce far morire di fame e di sete disperati impotenti di fronte allo sgonfiarsi del loro improbabile gommone. Laddove non può la repressione, arriverà il più bieco disinteresse. Siamo ormai abituati a reagire con fastidio annoiato al solito elenco di morti dovuto all’agitato del mare, ma quello che più ferisce oggi è che ci abitueremo con altrettanta noia e altrettanto fastidio alla morte altrui decretata per nostra indifferenza che altro non è che inaccettabile cinismo. La fame e la sete che hanno decretato la morte di “almeno” sessanta umani non sono figlie del caso, ma di un sovranismo strisciante di “lotta e di governo” che sembra poter avvolgere con tutta la sua oscurità un numero crescente di occidentali sempre più spaventati dalla propria umanità.

Sbarco di migranti nel porto di Trapani nell’ottobre 2014, foto da wikimedia commons

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *