Indecisione sulla strada da prendere
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Coronavirus, appunti politici per il “dopo”

 

Se fossimo indovini e ci mettessimo in questo momento a guardare dentro una palla di vetro, noteremmo una patina opaca così spessa che ci renderebbe praticamente impossibile ogni predizione. È così, ai tempi del coronavirus. Ancora, del resto, non sappiamo quando terminerà l’emergenza, non sappiamo come sarà la nostra vita nella tanto attesa Fase 2, non sappiamo quanto rapida sarà la ripresa delle attività economiche e sociali. Per ora, abbiamo piena coscienza e consapevolezza solo di tre cose: che la pandemia rappresenta un vero e proprio spartiacque storico, e cioè che il dopo non sarà uguale al prima; che in particolare le classi popolari rischiano di pagare un prezzo altissimo per un periodo di tempo piuttosto lungo; che l’efficacia e l’efficienza della ripresa – intesa in senso lato – sarà differente da paese a paese, da territorio a territorio. Bon gré mal gré, è sulla base di queste poche e precarie certezze che si può, e si deve, provare a imbastire un primo “appunto” politico sul futuro della nostra regione.

L’Umbria entra nell’emergenza pandemica in uno stato di crisi strutturale. Gli ormai da tutti conosciuti dati ci dicono, in buona sostanza, che dal 2008 al 2019 l’Umbria non è stata in grado di recuperare terreno sia sul piano della produzione della ricchezza che sul piano del benessere sociale. Prima dell’emergenza, in sintesi, il tessuto produttivo umbro appariva fragile, il settore dei servizi sociali in arretramento, il lavoro segnato da un tasso di precarietà elevato, i campi della formazione e della cultura eufemisticamente al palo, la vivacità associazionistica in evidente declino, le amministrazioni locali – in specie le più piccole – in forte difficoltà a garantire un’azione pubblica qualitativamente sufficiente. In dieci anni, insomma, l’Umbria ha cambiato pelle, e cambiando pelle ha cambiato poi orientamento politico, premiando la destra guidata da Donatella Tesei. Per farla breve, quando il virus infettava ancora solo i pipistrelli, i nodi strutturali della sofferenza umbra erano già venuti al pettine. Bisogna allora essere onesti e riconoscere che in Umbria la ripresa sarà verosimilmente più complicata e complessa di quella di altre regioni. La stessa situazione anagrafico-demografica incide in negativo. A livello tendenziale, sono i giovani in età lavorativa il cuore pulsante della produzione e del consumo; e l’Umbria è dietro solo alla Liguria per numero di anziani. Tuttavia, la cultura politica della sinistra ci insegna a coniugare sempre il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, quindi a rimboccarsi le maniche quando è necessario.

Da dove cominciare, dunque? Non v’è dubbio che l’emergenza pandemica abbia reso maggiormente nette e nitide le disuguaglianze sociali. Nel dopo-coronavirus le forze della sinistra avranno forse più chiari i blocchi sociali di riferimento, le dinamiche del conflitto e i segmenti della popolazione da rappresentare. La cristallina quanto brutale schiettezza delle contrapposizioni politico-ideali che affioreranno sulla scena globale, sommata alla posta in palio nel conflitto, costringerà (si spera) la sinistra a ritrovare un’anima e una funzione, o meglio, una propria e definita identità culturale, capace di interpretare il tempo e le contraddizioni che lo attraversano. Prima dello scoppio della pandemia si rifletteva sul latente o sull’esplicito conflitto tra chi nel gioco della globalizzazione era uscito perdente e chi, invece, vincente; si parlava di un conflitto tra “alto” e “basso”, ossia tra i “garantiti” e i “non-garantiti”. Come di recente ha sottolineato lo storico israeliano Yuval Noah Harari, dopo la pandemia, a tali fratture si aggiungeranno almeno due tipi di tensione: la tensione tra istanze di solidarietà globale e istanze di ripiegamento nazionalistico, nonché la tensione tra domande di ulteriore responsabilizzazione della cittadinanza e domande di maggior sorveglianza e controllo sociale da parte dei poteri pubblici. A valle dell’emergenza, lo scontro politico e sociale sarà di conseguenza duro e le partite che si giocheranno sui vari tavoli decisionali saranno tutte dirimenti. Decidere da che parte stare sarà un obbligo inderogabile.

Conoscendo i “fondamentali” materiali e immateriali del nostro paese, è lecito attendersi che l’emergenza si trasformerà presto in urgenza: l’urgenza di salvare il futuro in un caotico presente che ti consuma negandoti quelle pratiche dilatorie a cui la politica italiana ama languidamente abbandonarsi. La sanità, nel nuovo contesto, si presenterà come un’assoluta priorità. Poco sopra si accennava alle tensioni che emergeranno dopo la conclusione dell’epidemia. Tra queste ne manca sicuramente all’appello una: quella tra la potente logica utilitarista ed economicista, che pretende di assegnare un prezzo a qualunque cosa, compresa la vita umana, e la cultura della dignità della persona, che, come tale, è un valore senza prezzo. Prendendo le distanze dai tentennamenti e dalle ambiguità del passato, alla sinistra spetta abbracciare fino in fondo la dignità della persona umana. Tradotto politicamente: occorrerà lottare con il massimo delle energie per aumentare l’investimento in una sanità pubblica, universale, accessibile e di qualità. La destra umbra, cavalcando fin troppo strumentalmente un’opinione pubblica scossa e sdegnata dai fatti di cronaca, ha vinto le elezioni promettendo un’ampia opera di privatizzazione della sanità. A una deriva che mai come oggi stride e contrasta con le concrete esigenze del paese, la sinistra deve opporre un’alternativa riformatrice avanzata. In altri termini, la difesa dello status quo, in materia di diritti sociali, non basta: serve proporre una vasta riforma che inserisca lo sviluppo della sanità in un ambizioso progetto di politiche per la salute pubblica; un progetto di grande spessore e respiro che porti la sanità umbra a essere un’eccellenza non soltanto – o principalmente – per i “conti in ordine” .

La seconda priorità, nel dopo-coronavirus, insisterà sull’economia. Forse troppi sono stati in questi anni i dibattiti, i convegni e i documenti via via vergati per ribadire la necessità di disegnare un nuovo modello di sviluppo regionale. Tra pochi mesi, ci sarà da ripensare larga parte del sistema produttivo umbro. Va da sé che sia una questione tutt’altro che banale. Al contempo, è però anche l’occasione storica per provare a investire su nuovi asset, nuove leve di produzione del valore, nuove filiere, nuove politiche integrate. Le gravose conseguenze dell’epidemia ci prescriveranno di rivedere il rapporto tra pubblico e privato sia nel campo economico che più prettamente sociale. Soprattutto ci sbatteranno in faccia un tema che a sinistra è spesso a malapena sussurrato: l’opportunità della ri-patrimonializzazione dello Stato. In generale, per una solida ripresa, da un lato, saranno determinanti le scelte di allocazione delle risorse finanziarie stanziate dall’Europa o reperite a debito dallo Stato, dall’altro, sarà imprescindibile il rilancio – pure nel quadro locale – di un metodo concertativo capace di far smaltire ai plurali interlocutori e ai tanti portatori di interesse le perniciose ubriacature da disintermediazione. Traducendo in un’espressione retorica la logica aristotelica, si può dire che: o lo sviluppo sarà solidale, concertato, equo, o – semplicemente – non sarà sviluppo. Magari sarà crescita, ma non sviluppo. Sia chiaro: non un euro deve andare a finire nelle tasche di chi non ne ha davvero bisogno; non un euro va speso se non genera il massimo vantaggio sociale ed ecologico. Il capitalismo sopravviverà al coronavirus. Nondimeno, le politiche neoliberiste, l’austerità, l’esasperato mercatismo hanno mostrato in questo momento i loro pesanti limiti. Hanno mostrato la loro insostenibilità. Si tratta di ideologie, di strategie e di politiche che la sinistra della post emergenza non può continuare a pensare di modificare e correggere, visto – tra l’altro – che negli anni l’esperienza ci ha insegnato che sono poco o nulla modificabili e correggibili. Si tratta di ideologie, di strategie e di politiche che vanno superate e sostituite con un’impostazione ideale per la quale l’economia si pone al servizio dell’umanità. In questa sfida innanzitutto culturale la sinistra non è sola. Papa Francesco sta infatti caratterizzando il suo pontificato proprio su tale impostazione ideale.

La terza priorità concernerà il lavoro. Una quota non trascurabile di donne e uomini durante l’emergenza ha continuato a lavorare, a casa o nel solito luogo; una parte si è fermata continuando comunque a godere del proprio salario, un’altra parte riprenderà a lavorare subendo solo parzialmente le conseguenze della crisi economica che seguirà l’emergenza; un’altra parte ancora, invece, corre il pericolo di non avere più un lavoro, perché non riesce a riaprire il proprio esercizio commerciale, ovvero perché il proprio datore di lavoro non è in grado di rinnovare il contratto, oppure perché ha un’occupazione stagionale e la stagione è sostanzialmente saltata. Di esempi, ça va sans dire, se ne possono fare moltissimi. A fortiori in una regione come l’Umbria, in cui i salari sono inferiori alla media nazionale, il precariato morde forte e il terziario è esteso ma abbastanza fiacco, non si può non garantire una continuità di reddito alle fasce di popolazione in maggiore difficoltà. Se non si attivano perciò con tempestività strumenti adeguati, la tenuta sociale dell’Umbria deflagrerà assai velocemente. E non basterà il reddito di cittadinanza a calmierare una situazione esplosiva. Rispetto al job act di renziana memoria e rispetto anche agli indirizzi regionali degli ultimi anni, occorre invertire rotta in modo radicale. Un corposo investimento va destinato allora alla riforma del sistema della formazione, ai meccanismi di inserimento nel mondo del lavoro, alle norme che regolano le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro. All’interno di una cornice di preoccupazione e fibrillazione sociale, sarebbe delittuoso non colmare infine i vuoti normativi inerenti alla tutela di diverse categorie di lavoratori. Viene in mente l’esempio dei riders, ma, purtroppo, di categorie non tutelate o scarsamente tutelate ce ne sono parecchie. Categorie (vedi pure i braccianti agricoli) che quando l’economia va in stallo hanno davanti a sé o il baratro dello sfruttamento più barbaro o l’abisso dell’indigenza. In effetti, già in questi giorni, sembra crescere in Italia il numero delle persone che versano in uno stato di povertà assoluta. Riguardo all’Umbria, val la pena ricordare che le rilevazioni statistiche seguite alla crisi del 2008 la individuano come una delle regioni italiane nelle quali il tasso di disuguaglianza e di povertà relativa cresce in maniera più rapida. Se la Giunta regionale vuole evitare di camminare a tentoni nel buio post emergenza, deve attrezzarsi fin da adesso a promuovere una capillare mappatura del lavoro, delle condizioni dei lavoratori, delle condizioni dei disoccupati e degli inoccupati e, in generale, delle plaghe sociali che la pandemia finirà per gettare nella marginalità o persino nella povertà.

C’è infine un quesito da porci con estrema serietà. Lo smart working lascerà solo un segno, come una ruga sul volto del lavoro, oppure lascerà un’eredità con cui confrontarsi sul lungo periodo? Personalmente, ritengo che lascerà un’eredità, e anche un’eredità considerevole. Il modo di approcciare al lavoro era in fase di cambiamento già prima dell’emergenza; dopo l’emergenza le linee di tale cambiamento potrebbero accelerare la loro irreggimentazione nel complessivo sistema-lavoro. È oramai da molto tempo che buona parte delle azioni svolte in sede di lavoro vengono “processate” dalla tecnologia. Tuttavia, durante l’emergenza alcune tecnologie sono state applicate in maniera diversa dal passato. Si tornerà allo stato precedente o, viceversa, saremo chiamati a interagire con un “salto” irreversibile? Scommetterei più sulla seconda opzione.

La quarta priorità riguarderà gli enti locali. Più precisamente, le amministrazioni municipali. Se è vero – come è vero – che sono i Comuni i soggetti istituzionali maggiormente vicini alle istanze e ai bisogni dei cittadini, allora, nella fase della ripresa, occorre dare a essi un surplus di poteri e prerogative, in particolare in materia sociale. Non sfugge, in parallelo, che ai medesimi Comuni vada chiesto uno sforzo di collaborazione inter-istituzionale, di integrazione nelle scelte gestionali, di responsabilità nel sottoporre le rivendicazioni territoriali ai livelli istituzionali sovraordinati. L’Umbria, che è sempre stata e sempre rimarrà “l’Umbria delle città”, ha le carte in regola per diventare in tal senso un modello virtuoso. Ciononostante, se non iscritto all’interno di un regionalismo di tipo nuovo, un pur riconfigurato protagonismo municipale si presenterebbe come una vuota formula di governo locale, come un assetto formalizzato da norme o da prassi, ma privo di consistenti prospettive politiche. Diverse voci di intellettuali di fama mondiale si sono alzate nei giorni scorsi per spiegare che l’attuale emergenza introdurrà, almeno in Occidente, un “cambio di paradigma”. Come possono le istituzioni governare un mutamento di straordinaria portata se non mutano anch’esse – almeno parzialmente – forma, modalità di intervento e articolazione? Seppur rinnovate in profondità dalla Carta costituzionale del 1948, le istituzioni italiane odierne mantengono la vecchia matrice ottocentesca. Alla fine del secolo scorso, a più riprese, era emerso il diffuso convincimento che fosse necessario rivedere la struttura e il funzionamento degli apparati istituzionali e amministrativi. Purtroppo era pessima la natura del cambiamento che si voleva apportare. Con una serie di disorganici provvedimenti emanati tra gli anni novanta del Novecento e i dieci del Duemila, è stata compressa la rappresentanza democratica di Comuni e Regioni, sono state abolite le Circoscrizioni e sono state massacrate le Province. Il prurito di stravolgere la Costituzione in nome del coronamento di una vaga e fantomatica “democrazia decidente” non è mai morto, palesandosi all’ordine del giorno di diversi governi. Le aspirazioni accentratrici e neo-bonapartiste di Silvio Berlusconi e poi di Matteo Renzi sono state fortunatamente respinte dagli italiani, ma sono invero ispirazioni non nuove, che in toni e modalità differenti potrebbero riflettersi in via implicita o sottesa in altre e ben più audaci e insidiose future proposte di riforma costituzionale. La riapertura di un dibattito sull’assetto istituzionale del paese non avverrà comunque nella Fase due e nemmeno in un’ipotetica Fase tre. Ciò non toglie che nel dopo-coronavirus l’idea di una revisione istituzionale possa avere un suo spazio nel confronto pubblico. La sinistra dovrebbe, nel merito, giocare d’anticipo ed elaborare una riforma delle istituzioni nazionali e locali all’insegna della democratizzazione, cioè della valorizzazione dell’autonomia, della partecipazione e della condivisione delle responsabilità. L’emergenza, se da un lato ha aggravato il già improprio e discutibile rapporto tra Stati ed Unione europea, dall’altro, ha messo in luce le carenze inerenti al rapporto tra Stato e Regioni e tra Regioni ed enti locali. La prospettiva di una complessiva riconfigurazione istituzionale non è pertanto così peregrina.

Un’epoca nuova è alle porte. Saperla capire, affrontare e governare sarà il compito della politica. Ma questo, in ultima analisi, è il compito della politica in ogni tempo.

Foto di Peggy e Marco Lachmann Anke da www.pixabay.com

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