Un soldato in guerra
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Per non fermare il futuro occorre cambiare il presente

 

In uno stato permanente di guerra latente e guerreggiata, dronica o di trincea, di incursione brutale o di vendetta spietata, riuscire a distinguere le differenze tra democrazie e autocrazie risulta impresa ardua. Non a caso nel grottesco paradossale che tende a investire il sistema mondo si può notare come nelle lande (reali e presunte, storiche e annesse) dello zar che si pretende assoluto si siano celebrate le elezioni, sia pure plebiscitarie, con affluenza ben più alta di qualsiasi sistema democratico, mentre nell’Ucraina che si vuole europea, per ragioni di territori contesi attraverso pratiche che non conoscono esclusione di granate e proiettili, la scadenza naturale elettorale è stata giocoforza rimandata a data da destinarsi e qualsivoglia voce dissonante messa a tacere per alto patriottismo di necessità. Non a caso nella distopia mediorientale che purtroppo altro non è che la realtà, l’esercito dell’unico paese formalmente democratico, pretende, sotto il comando certo della politica, di terrorizzare, ridurre a fame e carestia, uccidere senza pietà, tanto per non girarci troppo attorno senza ricorrere allo scivoloso termine genocidio, una popolazione civile che con artefatto sillogismo viene equiparata al movimento, per alcuni politico per altri terroristico, di Hamas.

Insomma tanto nelle terre rivendicate dell’est quanto in quelle contese del Medioriente le democrazie sembrano comportarsi come autocrazie e le autocrazie tendono a scimmiottare il sostanziale formalismo delle democrazie. Le differenze tendono a svanire fino a riprodurre lo straniante effetto del ribaltamento. Quello che viene da domandarsi, visto che la natura infinita della guerra non può che essere vista come prodotto condiviso dalle parti e non come semplice imposizione di uno dei due (o più) contendenti, è quali vantaggi traggano le democrazie da tale stato di cose in primo luogo, e perché, in seconda istanza, le libere opinioni dei paesi democratici non riescano a mettere in campo un movimento di rifiuto radicale della logica della guerra. Rispondere alla prima domanda rischia di farci infilare in un ginepraio in cui il complottismo come disciplina alimentata da svariate dietrologie può prendere il sopravvento sull’analisi oggettiva, come cioè ragioni di politica economica e geografica possano incasellarsi in un dispositivo in cui tutto si confonde e in cui a essere alimentata sarebbe solo una distorta (ri)lettura dei massimi sistemi. Riuscire a capire dove inizi il circolo perverso della militarizzazione crescente, che oggi vive la palese e rivendicata fase del riarmo conclamato, delle società occidentali rischierebbe di essere, seppur pratica necessaria, questione di lana caprina. Interrogarsi invece sul perché le società civili occidentali risultino impotenti di fronte al belligerante andante, che ogni giorno di più si fa dato di fatto, ci darebbe strumenti utili per riuscire a cambiare il corso degli eventi senza attardarsi con l’ostico andante della più temibile delle cardature. Che fine hanno fatto le masse oceaniche che rivendicavano il pacifismo, mettendo in piazza i propri corpi pronte a sfidare il difensivismo di facciata della Nato? Dove è finita l’energia che ha attraversato il pianeta opponendosi ai signori del G8 intenti a spartirsi il mondo? Dove sono nascoste le moltitudini irriducibili a ogni delega che pretendevano di decidere in prima persona cosa fare delle proprie vite? Certo il potere, democratico, messo in discussione nella sua essenza ha reagito in maniera scomposta e violenta (da Praga a Stoccolma passando per Barcellona e finendo con Genova), ha mostrato i muscoli facendo capire cosa sarebbe stato della disobbedienza e che fine avrebbero fatto gli agitatori. Ha rivendicato cioè il monopolio della violenza, demonizzando con crescente sforzo ideologico invece la violenza propria dei movimenti che lo contestavano. La violenza è stata divisa, non certo per la prima volta nella storia, in diritto sacrosanto di tutela e di difesa (la violenza di stato e multinazionale) e nel più terribile nemico dell’umanità (la violenza dei movimenti). Questa cornice occidentale in cui il bene descriveva il male demonizzandolo e confinandolo nell’angolo dell’imperdonabile peccato è stata poi estesa al sistema mondo dichiarando guerre senza confini al nemico di turno regolarmente definito e delineato come minaccia globale, che se non sconfitto, o meglio annientato, avrebbe messo in discussione le stesse basi della civiltà. Tornando ai confini interni degli stati nazione in balia dei poteri sovranazionali, una volta regolati i conti con gli autoctoni che pretendevano di contestare e finanche di “sovvertire”, il potere ha iniziato a individuare nei migranti, nei corpi cioè che con la sola presenza fisica osavano sovvertire i confini dell’agio alimentati da quelli dell’arretratezza necessaria, il nuovo nemico da combattere.

L’occidente ha di fatto imposto la paura e l’allarmismo (indotti e ingiustificati) come elementi cardine delle proprie tornate elettorali, in un perverso meccanismo in cui la privatizzazione di beni e servizi ha giocato un ruolo fondamentale nell’alimentare tanto la paura quanto l’allarmismo. Il progressivo smantellamento del welfare, i diritti trasformati in privilegi e i doveri (sociali, fiscali etc) spacciati per pastoie, la proprietà come feticcio e il bene comune come anacronismo e tanto altro ancora, hanno fatto sì che la pericolosa piazza fosse sostituita dalla protettiva casa, che la famiglia prendesse il sopravvento sul resto della società, che la capacità dei singoli declinata in merito fosse unico parametro riconosciuto e riconoscibile, che l’elettore sempre meno rappresentato e sempre più confuso si allontanasse dalle urne, che il cittadino sempre meno protetto e sempre più esposto considerasse la protesta pubblica e collettiva non risorsa, ma fonte di guai. Un meccanismo a orologeria che restringendo la partecipazione ha prodotto democrazie meno attente ai propri fondamentali e più impegnate nella folle corsa di un benessere sempre più esclusivo, antitetico di fatto alle garanzie costituzionali uscite dalle macerie della seconda guerra mondiale.

Quindi cercando di tirare somme laddove gli addendi sembrano essere inesauribili possiamo dire, rischiando ovviamente di scimmiottare il cane che morde la coda, che: riscoprire la piazza rimettendo in discussione tanto la violenza quanto il suo monopolio; rituffarsi in un discorso di socialità allargata in grado di andare oltre la famiglia senza disconoscerla; uscire da un cortocircuito prestazionale che promettendo illusioni sottrae garanzie; riscoprire nell’altro non un simile che tranquillizza ma un diverso che coinvolge; sono tutti punti di (ri)partenza verso la costruzione di un altro mondo più indispensabile che possibile. Rimettere in circolo il pensare globalmente agire localmente che non disdegna il suo viceversa, troppo frettolosamente messo da parte, è urgenza non rinviabile se son si vuole annaspare in quel pozzo senza fine, ben descritto nel diario dal carcere di Ilaria Salis, pur stando dalla “parte giusta” della storia. Tanto per tornare alle miserie delle nostre terre dopo un breve volo sul baratro che ha di fronte il pianeta terra, prendendo a spunto la viva campagna elettorale perugina, dobbiamo prendere atto di come a nulla serva non fermare il futuro se prima non ci adoperiamo per cambiare il presente.

Foto da pxhere.com

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