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CS Lebowski, gli ultimi rimasti

 

L’epopea del Centro storico Lebowski, nata come squadra di calcio di proprietà dei propri tifosi, che si è allargata fino a diventare scuola calcio dopo l’occupazione di uno spazio destinato a parcheggio, punto di riferimento per un quartiere di Firenze e luogo che ha accolto Fatima sottraendola all’inferno dell’Afghanistan dei talebani e facendole segnare il gol più bello

Il C.S. Lebowski, squadra di tifosi che pretende tifosi in squadra, al di là della retorica che ferina occupa ogni dietro dell’angolo, nasce dall’A.C. Lebowski, squadra di terza categoria toscana che univa in una indissolubile miscellanea di paradossi un’alta presenza cinematografica alla serialità di sconfitte dai numeri tennistici. Proprio questa statistica di sconfitte senza alternative spinse un gruppo di giovani “ultras”, stanchi del calcio moderno, delle mille regole imposte dal profitto tentacolare delle pay tv e dall’ideologia mistica della sicurezza, a trovare campo e perdere voce sui gradoni degli stadi della periferia fiorentina. La squadra dai colori dettati dallo stato di necessità – il grigio e il nero sono figli delle regole basiche del non avere, e risultarono infatti i più economici sulla piazza – aveva così, senza averli cercati, anzi quasi sospettando una sonora presa per il culo stile Amici Miei, i suoi ultras. E che ultras. Dove sono gli ultras però esiste diffida. Così di fronte al rifiuto della dirigenza di tesserare i diffidati – stratagemma per non arrendersi al confino di stato e trasformare il tifoso esiliato in dirigente/giocatore/guardalinee, garantendo esercizio Comune di presenza – sei persone decisero di fondare una nuova società (con 1.800 euro provenienti da sei tasche da 300 euro ognuna): il C.S. Lebowski appunto squadra di tifosi – diffidati e non – e di giocatori provenienti dall’A.C. Lebowski. Uno scippo in piena regola per alcuni, una boccata d’aria pura per altri.

Una squadra così però non poteva non peccare di esuberanza eccessiva e di poca disponibilità verso la “disciplina”, che in tal caso altro non era se non la definizione negativa di una salvifica e imprescindibile organizzazione, l’unica in grado di garantire il sogno della realtà, da che classe è classe. Perché la libertà assoluta che si pretendeva sui gradoni della curva Moana Pozzi male si adattava alle regole di una squadra che pensava di dover competere, con altre derive e soprattutto altri approdi rispetto al resto della concorrenza, in un qualsiasi campionato, di una qualsiasi categoria (la terza nella fattispecie). Perché, con un salto carpiato degno del funambolo uso dare del tu alla gravitazione, nella disfida contro il marcio del calcio sponsorizzato che tutto pretendeva di trasformare in business, si decise che la ritualità della sconfitta doveva essere sostituita con l’ebbrezza della vittoria travestita da riscatto. Non poteva che essere un cuoco sardo allenatore di lungo corso e ben altre categorie, che pretende carta bianca e potere assoluto laddove la decisione si vuole collettiva e il potere condiviso, a garantire l’ascesa in paradiso degli ultimi rimasti.

Nuovi arrivi che allargano la famiglia senza snaturarla e nuove regole che permettono all’organizzazione di divenire arma al servizio della causa producono quei risultati in campo che fanno la gioia dei tifosi, che sono tanto in campo quanto sugli spalti. Dalla Terza alla Seconda categoria, senza dimenticare la notte della vittoria della coppa. E poi dalla Seconda alla Prima, e dalla Prima alla Promozione. Risultati certi a suggello di un altro calcio possibile. Gli ultimi che diventano primi senza dimenticare di amare gli ultimi e “odiare” i primi, in un gioco perverso che richiede memoria certa e smemoratezza improvvisata, schiena dritta e mente flessibile. Il tutto alimentato dalla tessera dei soci (l’esatto contrario della tessera del tifoso) e da una logica di autofinanziamento che spazia dalle cene alle sagre, in un festival dell’evento che permette di non avere padroni a cui dover sottostare.

Ma può il risultato prendere il sopravvento sul tutto? Può la vittoria sul campo sostituire tutto quello che sta fuori dal campo e che per la squadra dei tifosi conta più del campo? No di certo. Ed è così che le performances sul rettangolo verde non fanno altro che fungere da carburante alla presenza attiva in città. La faccia del profitto sul territorio veste i panni della speculazione che privatizza beni comuni secondo i piani cinici di una gentrificazione che pretende di sostituire la miglior appartenenza con la peggior apparenza. La resistenza di un quartiere, attraverso l’occupazione fisica di uno spazio sottratto e destinato ad area di parcheggio di appartamenti di lusso, ha fatto sì che il “Giardino dell’Ardiglione” divenisse luogo fisico della scuola calcio per bambini Bollo Orlando. Non basta infatti occupare uno spazio per sottrarlo alla speculazione, bisogna farlo vivere e a volte non è sufficiente neanche questo. Ma il sogno della realtà in questo caso ha finito con il travolgere l’onirico e attraversare lo spazio fisico, tanto che i giardini sono divenuti non semplice campo di calcio per bimbi, ma spazio polifunzionale aperto a tutti. La danza contamina il C.S. Lebowski tanto da trovare logica conseguenza nel rugby, nella lotta, e nel calcio a 5 femminile, che con il tempo si trasforma in calcio a undici. Le mele toste, nome della squadra a 5, si sa danno sempre buoni frutti.

Una storia di amicizia che cambia gli amici riuscendo a cambiare al contempo lo spazio di vita che li circonda, questo in breve sintesi il succo dell’avventura C.S. Lebowski. Il gol di Fatima al novantesimo, tornando alle miserie e agli splendori del gioco del calcio, sembra essere la tipica ciliegina a decoro di una torta in eterno divenire. Dall’orrore dell’Afghanistan alla corsa sfrenata che caratterizza ogni gol segnato in zona Cesarini e determinante per il risultato finale, è questa la vittoria più bella per quel cuoco sardo allenatore di altre categorie passato dai ragazzi alle ragazze. La storia di Fatima, non il suo gol ovviamente, dall’Afghanistan dei talebani e della guerra senza alternativa al C.S. Lebowski di tutti e della non proprietà senza confini. Poi “l’acquisto” di Borja Valero, particolare con l’alone della fama che si perde nella bellezza dell’universale che si pretende anonimo. Poi di nuovo il sogno della realtà che parla di uno stadio nuovo auto/progettato, auto/finanziato, auto/costruito. E poi, per tornare allo spicciolo delle cose, l’esonero del mister della prima squadra. Perché su queste montagne russe fatte di emotività, spregiudicatezza e passione per l’impossibile che diventa praticabile, la dialettica senza sintesi e senza analisi, che snobba Hegel e va oltre Marx, unendo il ristretto del rettangolo verde con la vita che eccede ogni norma, è la vera reale differenza tra gli ultimi rimasti e i primi che tali vogliono rimanere.

Liberamente tratto da: Gli ultimi rimasti – la vera storia del Lebowski
Foto di copertina dalla pagina facebook del Centro Storico Lebowski

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