Il concetto di meritocrazia è scivoloso e ambiguo. Quando lo si sente agitare suscita istintivamente una predisposizione positiva per almeno due motivi. In primo luogo, lo si collega a un’idea di giustizia: viene premiato chi merita, cosa che è ritenuta buona in sé. Il secondo motivo, collegato al primo, fa leva sulla frustrazione dei tanti e delle tante che si vedono superati o ritengono di vedersi superare da chi non è meritevole ma procede perché gode di santi in paradiso, conoscenze, raccomandazioni.
Ma la scivolosità e l’ambiguità del concetto di meritocrazia rimangono, nonostante il governo in carica l’abbia voluto enfatizzare addirittura ridenominandoci un ministero, quello dell’Istruzione, che è diventato dell’Istruzione e del Merito.
Una prima screziatura su questa superficie apparentemente levigatissima è rappresentata dalla valutazione. Chi decide il livello di merito? E come? Si tratta di misurazioni già difficili nei contesti di lavoro, che potrebbero portare anzi in alcuni casi a una sorta di cottimo mascherato. A livello scolastico, e quindi educativo, il problema si fa anche più spinoso. Perché se l’enfasi viene così pomposamente posta sul merito, l’attenzione si sposta pressoché esclusivamente sulla valutazione, e quindi sul voto che ne è misura. Il che significa privilegiare di gran lunga il risultato a scapito del processo educativo. Ciò produce uno scivolamento verso la deresponsabilizzazione dell’istituzione scolastica che si accompagna a un parallelo accrescimento del peso sul singolo individuo, chiamato a una performance che è assai in linea col principio della competizione che ormai ci pervade le vite. Come si vede si tratta di una costruzione che ha una sua spietata coerenza, tanto da essere una sorta di specchio in cui vedere alcuni collaudati meccanismi sociali. È anzi questo suo dispiegarsi quotidiano che la rende difficile da mettere in discussione poiché la dota di un’apparentemente naturalità.
Se l’accento è posto sul merito, e quindi sulla valutazione, c’è un’ulteriore aspetto da sottolineare: la sistemazione complessiva in un alto (chi valuta) e in un basso (chi viene valutato/a). Ciò comporta che la meritocrazia si lega strettamente a una gerarchizzazione sociale. Parlando di sistemazione complessiva e di gerarchizzazione sociale, si intende sostenere che l’enfasi posta in maniera così ostentata sulla meritocrazia è sostenuta da una visione intimamente gerarchizzata della società nel suo complesso – e non è un caso che di meritocrazia si parli a partire dal ministero dell’Istruzione, che cambia nome – che evoca a sua volta il concetto di obbedienza. Il processo è più o meno questo: merito-valutazione-gerarchia, con i corollari della competizione, come si è visto sopra, e – come si è appena annotato – dell’obbedienza.
Non c’è niente di male in tutto questo, quello che appare sbagliato è il pregiudizio positivo, cioè il dare per scontato che la meritocrazia sia una cosa positiva in sé, laddove quel concetto è funzionale – o comunque può diventarlo facilmente – a una certa visione della società. E che c’è di male nel basarsi sui principi della gerarchia e dell’obbedienza? Niente, a patto di avere ben presente che essi sono leve di una società che voglia conservarsi come è. E a patto di considerare che senza atti di disobbedienza il genere umano si troverebbe con tutta probabilità ancora all’interno delle caverne, avendo passato la sua esistenza su questa terra a obbedire alle gerarchie stabilitesi precedentemente.
Fin qui s’è agitata la volatilità dei principi, ma poi c’è la durezza dei fatti. Nel report “Livelli di istruzione e ritorni occupazionali” relativo al 2021 l’Istat rileva tre elementi interessanti. Il primo è che «il background familiare condiziona fortemente la possibilità che un giovane raggiunga un titolo terziario (cioè la laurea, ndr). Nelle famiglie con almeno un genitore laureato, la quota di figli 30-34enni che hanno conseguito un titolo terziario è pari al 70,1 per cento, se almeno un genitore è diplomato cala al 39,3 per cento e scende all’11,4 per cento quando i genitori possiedono al più un titolo secondario inferiore». Il secondo elemento rilevato dall’Istat è che «il vantaggio occupazionale della laurea rispetto al diploma è molto evidente: tra i 30-34enni laureati il tasso di occupazione è di oltre 12 punti più elevato rispetto a quello dei diplomati». E infine l’Istituto di statistica dice che «così come il raggiungimento di un titolo terziario, anche la dispersione scolastica è fortemente condizionata dalle caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine. Se il livello di istruzione è basso, si riscontrano incidenze di abbandoni precoci molto elevate. L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda il 25,8 per cento dei giovani con genitori aventi al massimo la licenza media, scende al 6,2 per cento se i genitori hanno un titolo secondario superiore e al 2,7 per cento se almeno un genitore è laureato». Insomma: se non si proviene da genitori che hanno una laurea ci si laurea più difficilmente e si hanno più probabilità di lasciare la scuola precocemente, con conseguenze anche sul reddito. È del tutto evidente come queste questioni di contesto abbiano assai poco a che fare con le qualità individuali, che sono invece il vero punto di discrimine dell’enfasi posta sul concetto di meritocrazia.
L’accento meritocratico insomma, nel suo isolare l’attenzione sul singolo individuo senza tenere conto di altro, diventa l’asse portante di una società che punta a conservare gli assetti che la contraddistinguono qui e ora. È proprio attraverso la meritocrazia che i figli dei notai diventano notai e quelli dei netturbini hanno alte probabilità di rimanere netturbini. Non è un caso che la Costituzione parla di «meritevoli» all’articolo 34, concentrandosi peraltro sui «privi di mezzi», i quali, sottolinea la Carta, «hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Molto prima però, all’articolo 3, la nostra legge fondamentale prescrive di preoccuparsi di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Non pare affatto questa la logica dell’enfasi posta dall’attuale governo sul merito. Anzi, nonostante mascherata, pare una logica esattamente opposta.
PS: del governo che ha rinominato il ministero dell’Istruzione in ministero dell’Istruzione e del Merito fa parte un autorevole esponente del partito di maggioranza relativa, Francesco Lollobrigida, che ha conseguito la laurea in un’Università telematica, istituzione che non brilla propriamente per premiare i meritevoli: si può guardare questa inchiesta di Report facendo particolare attenzione ai minuti dal 29 al 31, quando Lollobrigida dice di avere però, prima di laurearsi con Unicusano, frequentato La Sapienza facendo un «lungo percorso di studi e di militanza politica»; e poi, successivamente, per capire come funzionano le Università on line, dal minuto 60 in poi.