Perugia, via Appia
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Perugia, le promesse mancate della destra

 

Isolare un pezzo di città dal resto è una consuetudine tanto in voga quanto distorcente. È questo che rende vana la locuzione «politiche per il centro storico». Se il centro non viene collocato all’interno del sistema città, ci si condanna a capire poco di quello che vi succede, e si rischia di continuare a elucubrare sulle «politiche per il centro storico», appunto, senza costrutto. Ci sono peculiarità di quartiere, certo. Ma ignorare che in una città di piccole-medie dimensioni come Perugia – molto più che per le metropoli – le varie parti sono in un rapporto simbiotico che ricorda quello dei vasi comunicanti è un errore madornale. Che infatti ha portato a studiare il declino del centro storico di Perugia col microscopio, vale a dire con la lente puntata sui particolari, quando lo strumento che andava utilizzato avrebbe dovuto essere il grandangolo.

L’estrazione di valore

I tempi del discorso sono al passato, ma andrebbe utilizzato il presente. Perché il dibattito sul centro storico continua a essere quello: con buona parte dei commercianti che abolirebbe la ztl rendendo anche Corso Vannucci a doppio senso di circolazione e i politici alle prese col rompicapo dello spopolamento, per dirne solo un paio. Se solo si prendesse in considerazione che dal 2001 al 2020 la superficie occupata dalla grande distribuzione è quadruplicata in Umbria e che la città di Perugia ha trainato quel tipo di fenomeno, la questione dei vasi comunicanti comincerebbe a scorgersi. La grande distribuzione è andata letteralmente a estrarre valore da superfici precedentemente libere, realizzandoci sopra costruzioni per ospitare punti vendita. E questo è potuto succedere solo nelle periferie, essendo il centro storico di Perugia privo di spazi abbastanza grandi da occupare per ipermercati da migliaia di metri quadri di estensione. Si è trattato di un tipo di trasformazione le cui danze sono state condotte da capitali pronti a riversarsi sulle superfici e, di qui, moltiplicarsi non senza voracità. Le amministrazioni locali vi hanno assistito pressoché inermi; di più: stressate dai tagli dei trasferimenti statali sono state ingolosite dal ricavato dei permessi a costruire, e non hanno colto che tutto quello che stava succedendo con il loro nulla osta quando non con esplicita adesione (memorabili alcune inaugurazioni di supermercati con persone avvolte dalla fascia tricolore a tagliare nastri) avrebbe portato allo spostamento di masse di cittadini-consumatori lì, nelle aree precedentemente libere e non profittate, e alla desertificazione di zone precedentemente frequentate.

Il carattere della trasformazione appena descritta si sta arricchendo in questi anni di una nuova componente. Ha anch’essa a che fare con immobili e superfici, e potremmo definirla per semplicità il “fenomeno degli affitti brevi”. A fine ottobre, cercando su due delle piattaforme più utilizzate una sistemazione a Perugia in appartamento per due giorni nell’ultimo fine settimana di novembre, scaturivano oltre 600 possibilità. Se si considera che il patrimonio immobiliare del centro storico è costituito da poco meno di quattromila abitazioni, significa che circa un sesto della disponibilità di case in quella porzione di territorio viene attualmente destinata a fini turistici. Ciò determina una modificazione profonda di quella che, mutuando una definizione dal campo giuridico, potremmo definire la costituzione materiale di quel pezzo di città in cui il rapporto tra residenti e turisti si va sempre più squilibrando a favore dei secondi, con tutto ciò che ne consegue in termini di offerta di servizi e strutture.

Microscopio e grandangolo

Il grandangolo servirebbe, se non a trovare soluzioni, se non altro a prendere coscienza di tendenze che sono assai più ampie di quanto il microscopio utilizzato nell’ultimo ventennio abbia consentito di vedere. E dire che la spinta a capire avrebbe dovuto esserci: a cavallo di questo intervallo di tempo Perugia ha conosciuto un cambio di maggioranza di governo per certi versi epocale. E si è trattato di un sommovimento che ha avuto nel cosiddetto declino del centro storico una sorta di epicentro. Solo che le lenti sono rimaste focalizzate a cavallo del crocicchio di strade intorno a Corso Vannucci, Ci si è rifiutati di connettere la sorte del centro a quanto stava (e sta) accadendo fuori: da un lato l’estrazione di valore da superfici precedentemente libere che sono state cementificate e trasformate da campi a negozi, dall’altro una forma di rendita dagli immobili del centro che ha in parte finanziato la realizzazione di villette nelle colline della immediata periferia contribuendo a fare di Perugia la città assai poco compatta e poco governabile in termini di trasporto pubblico che è oggi. Se si pensa che alle elezioni politiche del maggio 2001 le forze afferenti al centrosinistra guadagnavano nel centro storico oltre il 50 per cento dei consensi e nel settembre del 2022 hanno raggiunto a stento il 40 si capisce come i motivi di attenzione a fenomeni del genere non sarebbero mancati. E invece niente.

Lo stato dell’arte

L’ultima analisi approfondita sull’acropoli di Perugia è stata effettuata alla fine del 2017 dal Cresme, un centro di ricerche di mercato con sede a Roma. Era emerso che dei circa 2.800 nuclei familiari che vi risiedevano, il 58 per cento era composto da una sola persona, e delle 3.650 abitazioni censite 955 risultavano non occupate. Complessivamente vi lavoravano più di diecimila persone. Ma al di là dello stato dell’arte, quello che appare con una evidenza solare è la polarizzazione tra un’amministrazione che nonostante – come già rilevato – debba gran parte delle sue fortune alla narrazione sul declino del centro storico, è rimasta immobile, e una società civile dotata di un dinamismo che, qui come in altre parti della città, non solo colma lacune ma costituisce eccellenze.

Le macro-partite principali per il centro storico di Perugia sono riconducibili a quattro: il Mercato coperto, i cinema Turreno e Pavone (e potremmo aggiungerci il Lilli), e l’ex carcere di piazza Partigiani. Si tratta di tutte pratiche che il sindaco Romizi ha trovato sulla sua scrivania al momento del suo primo insediamento, nella primavera del 2014. Cinque anni dopo, nelle linee programmatiche di mandato dopo la rielezione del 2019, il sindaco scriveva: «Nel precedente quinquennio è stata data una grande attenzione a progetti di riqualificazione nel centro storico, quali il Mercato Coperto e il Turreno», ma senza neussun esito, occorre aggiungere. E a proposito dell’ex carcere sottolineava che ci sarebbe stato un «investimento già programmato in 60 milioni». Nel documento, il sindaco che nella prossima primavera terminerà il suo doppio mandato a avrà quindi governato Perugia per dieci anni, assicurava anche: «Il Teatro del Pavone tornerà ad essere luogo per eventi culturali della città». Solo che oggi, quando siamo arrivati a fine 2023, e quindi a nove anni dalla fine del «regime rosso» a Perugia, Turreno e Pavone sono serrati come lo erano all’inizio della prima sindacatura Romizi, l’ex carcere è esattamente nelle stesse condizioni in cui è stato negli ultimi decenni, e la tormentata vicenda del Mercato coperto pare avviarsi a conclusione con la sua trasformazione in Museo del cioccolato a gestione privata, nonostante si sia ancora ben lontani dal posare la prima pietra. In nove anni insomma, a dispetto di numerosi annunci e altrettanti articoli ispirati da comunicati stampa che trasformavano in atti risolutivi incontri istituzionali del tutto infruttuosi, si è rimasti dove si era.

L’altra faccia

Se sulle macro-partite – quelle che per forza di cose sono di pertinenza dell’amministrazione poiché necessitano di investimenti cospicui e potrebbero costituire gli assi strategici per una visione di città – il terreno sul quale si cammina è quello delle sabbie mobili, c’è però l’altra faccia della luna. È costituita da un movimento molecolare che si affaccia in singole vie; lo compongono piccole imprese sociali e culturali, associazioni di volontariato, reti di residenti e commercianti. È stato in questi anni di stasi amministrativa il lievito del centro storico, fino a costituire una sorta di contraltare naturale alla vuotaggine istituzionale. È grazie a questo ingrediente che l’area imperniata sull’asse via della Viola-via Cartolari è letteralmente risorta a partire dalla riapertura dell’ex cinema Modernissimo ad opera di una cooperativa di cinefili visionari, del cinema Melies che si trova a poche decine di metri di distanza, e della libreria Mannaggia; tre luoghi fisici che sono altrettanti animatori e contenitori di proposte innovative che hanno ravvivato l’area incentivando successivamente l’apertura di locali per chi, una volta consumata cultura, avesse voglia di consumare anche cibo e bevande. Corso Cavour e più in generale Borgo XX Giugno hanno beneficiato invece di un’azione associativa territoriale che mettendo insieme residenti e commercianti ha reso l’area una delle più godibili dell’intero capoluogo conservandone al tempo stesso i tratti salienti originari. In corso Garibaldi i commercianti stanno rendendo la parte bassa e più prossima a piazza Grimana una sorta di distretto del cibo etnico, mentre il parco Sant’Angelo è oggetto di un’opera di riqualificazione che vede nell’associazione Ya Basta! l’attrice principale. Non si tratta di episodi limitati al centro storico. In questo senso, questo pezzo di capoluogo di regione è rappresentativo di quanto sta avvenendo anche in quartieri periferici: da Ponte San Giovanni all’area di via del Lavoro, fino ad arrivare a San Sisto. Qui, come altrove, il movimento evolutivo è tutto all’esterno delle istituzioni e dei partiti tradizionali, fino a rappresentare, per certi versi involontariamente, una sorta di antagonismo al loro immobilismo.

Nella foto tratta da wikimedia commons, via Appia
L’articolo è stato pubblicato originariamente nell’edizione di Micropolis dell’8 novembre 2023

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