Un murales di Hiwa A. Perdawood
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Il silenzio della sinistra

 

Fabrizio Bracco si inserisce nel dibattito aperto dall’articolo Cosa è successo all’Umbria pubblicato da Cronache umbre lo scorso 28 settembre

Allinizio del nuovo secolo, Vittorio Foa pose a due vecchi compagni di lotta, che con lui avevano attraversato una buona parte del secolo breve, una domanda che da tempo sentiva quasi come una ossessione: «Erano milioni in tutto il mondo , e anche in Italia, gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti [] ora stanno in gran parte in silenzio. Il loro passato è cancellato nella memoria». Perché questo silenzio? Forse, rispondeva Foa, per il traumatico distacco da una forte identità individuale e collettiva, o per la difficoltà di fare i conti con ricordi sgradevoli (come il fallimento del sistema sovietico con il suo carico di errori e la conseguente repentina scomparsa dei partiti comunisti in Europa), o, infine, per il forte disagio provato da tanti per «aver cambiato varie volte le idee nel corso della propria storia e quindi di essere stati incoerenti».

Da questi interrogativi parte un denso scambio epistolare con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin sulla storia dei comunisti italiani, sul suo senso più profondo, sui suoi successi e i suoi errori, che, per la lunga esperienza dei tre protagonisti, inevitabilmente diventa presto un confronto sulla storia della sinistra italiana nella seconda metà del Novecento. Nasce così un volumetto a tre mani, pubblicato da Einaudi nel 2002 con un titolo significativo: Il silenzio dei comunisti.

In questi anni sono più volte tornato a quel dialogo, così sofferto e sincero, perché vi ho trovato un approccio ai problemi e una capacità critica (e autocritica, avremmo detto in altri tempi), secondo la migliore tradizione socialista e comunista, ed è stato per me pieno di suggerimenti e di spunti di riflessione. E ancora più oggi di fronte alla domanda che mi pongo con la stessa ossessione di Foa su un silenzio altrettanto assordante: il silenzio della sinistra.

La trama dei ragionamenti dei tre autori, che conoscono bene i grandi meriti della sinistra nella costruzione e nella crescita sociale ed economica dellItalia repubblicana, converge nel cogliere il suo più grave limite nellincapacità di ripensare se stessa nelle profonde trasformazioni di un paese che si andava modernizzando e integrando nei processi di globalizzazione. Di fronte al nuovo orizzonte la sinistra non è stata allaltezza culturalmente prima ancora che politicamente. Questo le ha fatto perdere di vista le dinamiche storiche e sociali, con i mutamenti culturali e antropologici che ne sono seguiti, e lha portata a guardare gli aspetti più superficiali e a concentrarsi sugli orientamenti e gli umori di una opinione pubblicaspesso identificata con lopinione dei media.

Mentre in Europa e in Italia la grande frattura individuata da Stiglitz tra i pochi ricchissimi e ricchi e tutti gli altri produceva un allungamento della società, con una crescente distanza tra persone e gruppi sociali, che presto sarebbe diventata un abisso, carico di nuove fratture; e mentre evaporava quella coesione sociale che, nella seconda metà del secolo, aveva favorito il compromesso democratico e contribuito a costruire il modello sociale europeo (welfare e democrazia politica), la sinistra ha creduto che nella complessa società contemporanea il conflitto sociale avesse perso di significato, sostituito da nuove pratiche di mediazione. Così, di fatto, ha separato la sfera politica e dei valori da quella sociale e ha cominciato a pensare la politica soltanto in rapporto a se stessa. La conseguenza è la lettura della crisi italiana della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta come crisi di un sistema politico vecchio e corrotto e non come crisi sociale e culturale, cioè come crisi della costituzione materiale del paese. E per uscirne ha ritenuto sufficiente superare i vecchi partiti, introdurre un nuovo sistema politico e un nuovo sistema elettorale, fare una efficace manutenzione delle istituzioni, sostituire, magari con facce nuove, la vecchia classe dirigente.

L’affievolirsi di uno spirito critico e indagatore e lassenza di un serio sforzo di riflessione sono emersi nellapproccio ai tanti problemi che via via si sono aperti e che in gran parte ancora oggi non hanno trovato soluzione. Ci si è interrogati troppo timidamente sullesaurirsi dellesperienza comunista, sulla quasi scomparsa della tradizione socialista in tutte le sue diverse componenti, sulla debolezza, nel nostro paese, della sinistra democratica, liberale, cristiana, sulla difficoltà di affermarsi dei Verdi. E, più di recente, le sconfitte della sinistra radicale e anche di quella riformista sono rimaste senza adeguate risposte. Ma soprattutto si è tardato troppo a capire gli effetti che le grandi trasformazioni di fine secolo e la globalizzazione avevano sulla vita delle persone e sulla società, cambiando le relazioni sociali, gli stili di vita, i comportamenti, i desideri e le aspettative di ognuno. E cosa abbia voluto dire per i valori e le idee fondanti della sinistra (libertà, eguaglianza, giustizia sociale, progresso) il passaggio – descritto da Bauman – da una società di produttori (fondata sul lavoro, sulla sua diffusione, su una equa retribuzione, e sulla protezione sociale) ad una società di consumatori (fondata sui soldi e la ricchezza individuale, dove più si è liberi di scegliere e consumare più si è soddisfatti e cresce il prestigio e il consenso sociale). Se alla coppia lavoro/dignità si sostituisce la coppia ricchezza/prestigio è evidente che cambino sia il concetto di eguaglianza e di libertà che quello di progresso, come i comportamenti e le gerarchie dei valori.

Per ricostruire la sinistra il tema del lavoro e della condizione dei lavoratori resta centrale, anche se si presenta in termini del tutto nuovi. Non soltanto come lavoro sottoretribuito, ma soprattutto come lavoro non libero, incerto, limitato nella sua autonomia, «minacciato – scrive Reichlin – nella sua integrità fisica, culturale e professionale, in quanto espropriato dal controllo sul flusso dinformazioni e di conoscenze che costituiscono sempre più la forza di produzione delleconomia moderna». Al tema del lavoro si ricongiungono subito quello delle nuove povertà, frutto anch’esse di quelle trasformazioni tecnologiche che espellono tanti lavoratori dalla produzione e impediscono a tanti altri di entrarci, o che impongono lavori retribuiti al di sotto della sopravvivenza, e delle nuove forme di emarginazione sociale, molto diverse sia rispetto a quelle della società pre-industriale che industriale. Dunque, lavoro, povertà, emarginazione sociale, esclusione, discriminazione, in quanto negazione della libertà e della dignità del lavoratore e della persona sollecitano un aggiornamento dellidea di liberazione (emancipazione), e dunque delle idee di libertà e di eguaglianza. Lungo questo traiettoria, inevitabilmente il campo della sinistra si allarga, incontrandosi con le tante sensibilità del mondo cristiano e cattolico, come di quello democratico e liberale. Questi mondi sono infatti interessati con la sinistra a ripensare profondamente il rapporto tra politica ed economia, tra etica ed economia, palesemente e decisamente squilibrato a vantaggio di questultima; tanto che lo stesso lessico politico è ormai ampiamente ibridato dal linguaggio del marketing. E, ovunque, un mercato dominante e sregolato minaccia la sopravvivenza stessa delle istituzioni democratiche.

La crisi irreversibile dei partiti e la deriva oligarchica evidente nelle nostre istituzioni, con il crescente distacco tra eletti ed elettori e la tendenziale autoreferenzialità dei percorsi decisionali, sono, infatti, il risultato di questi processi, i quali hanno progressivamente allontanato la politica dalla società e hanno cambiato le modalità stesse di fare, organizzare e comunicare la politica.

La rivoluzione spaziale, di cui, sulla scia di Ulrich Beck e di Carlo Galli, parla Marco Revelli, con la trasformazione della struttura e della natura del nostro spazio sociale e l’irruzione dei media che hanno occupato lo spazio politico, divenendo il luogo principale, se non esclusivo, della politica, hanno finito per svuotare i partiti e rendere più fragile la democrazia contemporanea. Il cittadino partecipante della democrazia, portatore di interessi particolari e di un sentimento sociale, si è trasformato in individuo spettatore (cioè consumatore), in cerca di emozioni alimentate dalla dimensione spettacolare secondo le regole della société du spectacle. Conseguenze ne sono la forte personalizzazione della dialettica politica e linsofferenza per i contenuti, i progetti, le idee, perché il mezzo esige brevità, rapidità e, dunque, superficialità, non certo riflessione e argomentazione. I partiti politici sono stati così travolti e si sono trasformati lentamente in apparati oligarchici, più preoccupati delle carriere dei singoli e della ricerca di un labile consenso (che come abbiamo visto in questi anni cambia anche molto rapidamente) piuttosto che di rappresentare canali di partecipazione alla vita democratica, e di promuovere e dirigere i processi sociali.

La lunga crisi italiana aggravatasi dopo il 2007-2008 ha fatto poi riemergere tanti mali antichi del nostro paese: legoismo individualistico e territoriale, il familismo, il corporativismo, la tendenza allautoritarismo paternalistico, il trasformismo, la debolezza estrema delletica pubblica; ebbene, tutto questo ha alimentato lantipolitica e ha favorito la diffusione di un nuovo populismo e di nuove chiusure nazionalistiche, che hanno purtroppo trovato qualche spazio anche a sinistra. I partiti, con qualche ragione, sono apparsi sempre più i protagonisti negativi, apparati esterni alla società che perseguono finalità proprie e a volte contrastanti con quelle dei cittadini. Questo ha facilitato una grande operazione di sviamento, che ha fatto dei partiti (indifferentemente tutti i partiti) i principali responsabili di gran parte dei problemi nazionali, che possono essere risolti soltanto eliminandoli o indebolendoli fortemente.

Senza troppa resistenza si è avuto uno spostamento di senso e di valori. Con la riduzione degli spazi di rappresentanza e di partecipazione e il trionfo dellantipolitica, anche a sinistra, si è assistito alla trasformazione dei partiti in comitati elettorali e, quindi, in strumenti di formazione e autoriproduzione delle nuove oligarchie, che però appaiono sempre più deboli e subalterne. Eppure, i classici del pensiero democratico ci hanno indicato nella partecipazione organizzata dei cittadini alle decisioni politiche, nel protagonismo dei gruppi sociali e nella legittima rappresentanza di interessi e aspettative, lessenza stessa della democrazia moderna, al pari del suffragio universale e del diritto ad un voto informato e consapevole. Senza tutto ciò la democrazia cessa piano piano di funzionare fino a quella forma di regime che il politologo tedesco-americano Yascha Mounk chiama «democrazia senza diritto», di cui in Europa e nellAmerica di Trump abbiamo inquietanti esempi (anche con appendici italiane).

Per spersonalizzare la politica e restituire alle istituzioni rappresentative e ai partiti ruolo e centralità non bastano le scorciatoie politicistiche e organizzative. Non basta ricorrere a esercizi di ingegneria politica e istituzionale: si deve recuperare il senso e la funzione storica di una prospettiva democratica e di sinistra, attingendo alla lezione dei nostri maggiori – come direbbe Bobbio -, a cominciare dalla lezione di Gramsci e dalla sua capacità di inserire le vicende della sinistra italiana nella storia nazionale e di guardare alle esperienze e alle sollecitazioni culturali, anche diverse.

Ma la sinistra italiana, che pure ha sempre mostrato grande coraggio nel confrontarsi con le esperienze del socialismo reale e con i cambiamenti del secondo dopo guerra – tanto da configurare in Europa, fin dalla fine di quegli anni Sessanta densi di novità, una sua originale posizione – si è mostrata smarrita e impreparata.

Una parte ha ritenuto che fosse sufficiente ripiegare sulla propria originalità per trovare gli elementi utili a ridefinire nel presente una prospettiva di sinistra. Una parte ha ritenuto che tutto fosse cambiato e che dunque bastasse cambiare, ad ha finito per subire la crescente influenza dellunico mondo che sembrava rimasto, accogliendo di fatto le tesi, rivelatesi poi illusorie, sul trionfo del liberalismo di Fukuyama. Infine, una parte aveva intuito la necessità di una svolta radicale culturale e politica, in grado di dare nuova veste alle aspirazioni egualitarie e libertarie della sinistra, una nuova funzione nazionale e nuove capacità attrattive, senza smarrire la memoria del patrimonio di idee, esperienze e passione che ha fatto del Pci e della sinistra italiana un fattore di democrazia e di progresso. In questo senso, per la parte politica che mi riguarda, andavano i tentativi di costruire un nuovo grande partito della sinistra. Ma presto anche questo tentativo si è arenato, scontrandosi con resistenze e conservatorismi che hanno impedito di svilupparne tutte le potenzialità.

Tra le più gravi difficoltà della sinistra, sia radicale che riformista (come si usava dire), vi è stata (e in parte ancora perdura) limpossibilità di avviare un confronto reale e una discussione comune. Si è insistito sugli errori, più o meno gravi, evitando di riconoscere le ragioni e, quando cerano, i meriti di ciascuno. La riflessione sul passato sovente si è trasformata in ricerca delle responsabilità dei fallimenti e delle sconfitte, alimentando così nuovi scontri e riproponendo quella dannazione di cui recentemente ha scritto Ezio Mauro. È stato difficile anche trasformare la storia della sinistra, di tutta la sinistra, con le sue contraddizioni e i suoi limiti, in un patrimonio comune valoriale e esperienziale, da cui ripartire verso un nuovo processo unitario.

Vittorio Foa aveva quasi previsto tutto questo e volle avvertirci di non provare disagio di fronte ai cambiamenti in nome di una ipotetica coerenza: «tutto sta – scrisse – nel come si cambia: se io dico di avere avuto sempre ragione sono un poveretto, se spiego che con il mutare del mondo è cambiata anche la mia testa, comincio a ragionare».

E allora cominciamo a ragionare se non vogliamo correre quel rischio che Biagio De Giovanni definisce l’insidia del residuo, cioè il rischio di divenire un residuo storico, la testimonianza di unaltra Italia, di unaltra Europa e di unaltra fase della nostra storia. Un segno di questa possibilità è già presente nel dibattito che ha attraversato gli ultimi trentanni sullattualità della coppia destra/sinistra (dibattito peraltro antico, che si era affacciato in Europa negli anni Venti con i fascismi), ma che ora ha acquistato una nuova pregnanza per i tanti sostenitori della modernità che la ritengono superata.

Ma questo è un esito inevitabile? Dobbiamo credere, come si domandava Reichlin, che lalbero della sinistra non sia più in grado di dare i suoi frutti? Per dimostrare che questo albero è ancora ricco di frutti è necessario un radicale cambiamento che sappia misurarsi con le grandi novità, anche tecniche e scientifiche, del nostro tempo, e sappia proporre una ridefinizione dello spazio politico, restituendo a partiti rinnovati il ruolo di elaborazione progettuale e programmatica e di strumento di partecipazione popolare.

Questo bisogno di radicale cambiamento è ancora più urgente se lo guardiamo dalla nostra piccola dimensione regionale. Qui, tra il marzo 2018 e lottobre 2019 si è avuta una netta cesura. Si è chiusa definitivamente una pagina che si era aperta con la Liberazione e con la Repubblica, e che si era ulteriormente consolidata con listituzione della Regione nel 1970. In Umbria, quella storia che sin dal dopoguerra è stata fortemente segnata dallazione di governo della sinistra, sembra dissolta, così come appare ormai in frantumi quel cuore rosso d’Italia (di cui ha parlato nel 2005 Francesco Ramella), che ha permesso anche agli umbri di fare notevoli progressi, di raggiungere elevati livelli di welfare e di buon vivere e di recuperare buona parte del gap che li separava dalle altre regioni del nord e del centro del paese.

Anche l’Umbria è stata profondamente toccata da quei processi, a cui sopra ho sinteticamente accennato. Soprattutto dopo la lunga crisi, dal 2007 ad oggi, ha visto una forte riduzione del Pil regionale (tra i maggiori in Italia), e un crescente impoverimento della popolazione, con mutamenti sociali e culturali che hanno portato alla disgregazione del quadro politico. La sinistra umbra aveva avvertito da tempo i rischi di un declino (addirittura si può risalire al Congresso straordinario del Pds del 1995), con il ridursi del flusso di spesa pubblica, con la delocalizzazione di importanti imprese e con il permanere di tutti i limiti strutturali della regione. La ricostruzione post-terremoto del 1997 aveva allontanato quei primi scricchiolii, illudendo su una possibile ripresa, ma sono poi mancate le riforme strutturali necessarie per favorirla.

Alla sinistra, infatti, non era sfuggita la necessità di introdurre cambiamenti nell’organizzazione del welfare, nel contrasto alle povertà, nelle politiche della formazione e della ricerca, nel funzionamento delle istituzioni e negli apparati regionali, nella programmazione e nell’utilizzo delle risorse pubbliche. Aveva colto l’urgenza di ridefinire un nuovo progetto politico e programmatico, ma non è stata capace di dare seguito a queste intuizioni e, allargandosi il divario tra elaborazione e azione politica, piano piano si è trovata in crescente difficoltà a governare. Le forze della sinistra sono diventate sempre più silenziose e le rappresentanze istituzionali sono rimaste sole a fronteggiare la crisi, finendo per perdere il contatto con la società regionale, ormai incerta e confusa. Si è aperto così un vuoto che a sinistra nessuno è stato capace di colmare. Dopo la perdita di Perugia, nel 2014, non vi è stato alcun dibattito pubblico, né le successive sconfitte pure in comuni importanti come Terni, Foligno, Spoleto, Todi ecc. hanno originato riflessioni e discussioni in grado di sollecitare la sinistra a un serio ripensamento sul suo insediamento sociale, le sue forme organizzative e le sue prospettive. E così ci si è avviati con un colpevole fatalismo verso nuove sconfitte, anche queste seguite da un silenzio assordante.

Ora, bisogna ripartire da qui. Sapendo che l’Umbria, per quanto non estranea ai processi globali sopra ricordati, ha tratti originali con i quali fare i conti: limiti strutturali che risalgano alla sua dimensione e alla sua storia, la debolezza del sistema produttivo, uno smarrimento dei ceti produttivi e una scarsa vivacità della società civile, una crescente estraneazione di settori importanti a cominciare dagli intellettuali e dai ceti medi, la fuga, ormai sempre più frequente, delle sue migliori energie (i tanti ragazze e ragazzi che formatisi qui se ne vanno altrove per mancanza di possibilità), una bassa produttività della macchina pubblica. Con la ripresa che sembra allontanarsi, tutto ciò genera una diffusa incertezza per il futuro, un senso di insicurezza e una passività dei cittadini, sempre più preoccupati e lontani dalle istituzioni.

Ad aggravare la situazione si è aggiunto il Covid-19 con il suo drammatico seguito di contagiati e di morti. La pandemia ha fatto emergere tutti i limiti del paese e della regione, i tanti errori compiuti in passato: dal definanziamento della sanità a politiche della salute sbagliate, come, ad esempio, aver colpevolmente indebolito il nostro sistema sanitario universalistico e trascurato la medicina del territorio, a cominciare da quelle Case della salute su cui occorreva ricostruire l’intera rete territoriale (proposte quasi vent’anni fa).

Ora, i valori e gli ideali della sinistra tornano ad essere fondamentali e vitali. La sinistra è, infatti, necessaria per contrastare la contrazione dei diritti e degli spazi di libertà e di democrazia, la smisurata crescita delle diseguaglianze sociali, la disgregazione della società, la chiusura agli altri, ai diversi, il riemergere delle discriminazioni e del razzismo. E ancor più adesso che abbiamo preso coscienza di tutta la nostra fragilità di fronte agli sconvolgimenti climatici, al diffondersi delle epidemie, alla incapacità di gestire conflitti militari e commerciali, mentre si rivelano illusori i sogni del liberalismo neoliberista, e la finanziarizzazione delleconomia mostra tutti i suoi limiti.

Il radicale cambiamento di cui abbiamo bisogno non possiamo affidarlo ad un solo partito, anche se rinnovato, né alla somma di partiti e partitini, più qualche associazione o movimento civico, la disponibilità dei quali è comunque indispensabile, ma ad un processo, anche conflittuale, che veda protagonisti tutti coloro che sono generosamente disponibili ad una ricerca comune, abbandonando diffidenze e schematismi. Abbiamo bisogno di una scossa, di una forte ripresa della discussione pubblica, in grado di farci superare quello smarrimento e quel conservatorismo, che è anche dentro di noi, dentro la sinistra umbra. Senza perdere, al tempo stesso, il bagaglio di memoria, esperienze e idealità che ciascuno di noi porta con sé.

Nessuno da solo può farcela. Dobbiamo aprire un grande cantiere (uso non a caso una parola largamente abusata dai media) capace di costruire un progetto di radicale cambiamento per rimettere la sinistra sulla traiettoria della contemporaneità. L’obbiettivo è un soggetto politico nuovo, aperto e plurale, forte dei suoi valori e dei suoi progetti, radicato nella società e nel territorio. Sembra un linguaggio antico, ma poi lo è veramente? Un’indicazione ci viene dagli Stati Uniti, dove per battere il populismo trumpiano si è riscoperta la funzione del partito radicato nel territorio. In Georgia, lo stato del Sud di Via col vento, in cui è nato Martin Luther King, da lungo tempo governato dai repubblicani, i democratici, grazie al lavoro di Stacey Abrams, candidata democratica sconfitta per pochissimi voti nel 2018 alle elezioni del governatore, hanno contribuito in modo determinante al successo di Biden. Abrams, dopo la sconfitta, non si è fermata, ma ha cominciato a riorganizzare il partito puntando su una capillare presenza nel territorio, toccando ogni villaggio, anche il più isolato. Tanto da diventare un caso di studio per i politologi statunitensi. Nadia Urbinati, nel descrivere l’esperienza dei democratici georgiani sul quotidiano Domani, titola: I populisti si battono con la forza dei partiti e la politica di territorio.

Chissà se questa volta un suggerimento per la ripresa della sinistra italiana non possa venire dagli Stati Uniti?

In copertina, un’opera di Hiwa A. Perdawood tratta da wikimedia commons

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