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L’Umbria rossa non c’è più da trent’anni

 

L’originale di questo testo è di Tommaso Nencioni, ed era dedicato all’analisi del voto in Toscana. Valentino Filippetti, sindaco di Parrano, l’ha riadattato sostituendo la parola “Toscana” con “Umbria” ritenendolo del tutto adatto a spiegare anche la parabola della nostra regione.

Sono morti (perché) democristiani] La prossima volta che sento qualcuno blaterare di “fine della Umbria rossa” e simili puttanate mi incazzo come una jena. Cosa avrebbe di intrinsecamente “rosso” questa Umbria? E perché fino a oggi la si poteva definire “rossa”? Perché si curano le aiuole meglio che a Monza o a Caserta? Ma facciamola finita. Cazzate sesquipedali da mito della “buona amministrazione”, un mito stanco e anche un po’ reazionario buono per una classe dirigente di vivaisti più che di personalità politiche.

Fuori dai luoghi comuni politicisti, l’Umbria rossa è finita 30 anni fa. Ora è finita anche l’inerzia. Il fatto è che l’Umbria rossa nasce tra resistenza e dopoguerra quando la sinistra capisce l’importanza dei mezzadri (tanto ora piano piano vi mandano tutti a casa, avete tempo per leggervi i libri del Bartolini). Tanto che l’Umbria rossa è in realtà una campagna rossa, con appendici nelle poche realtà industrializzate, mentre i capoluoghi restano moderati. In una fase successiva il partito è stato all’altezza della sfida della grande trasformazione dei 60-70, mantenendo la presa sugli immigrati interni dalle campagne alle fabbriche e sapendo dialogare coi due ceti medi, quelli istruiti e quelli ex operai e contadini passati all’artigianato. Di qui lo sfondamento dei 70-80 nei capoluoghi.

Finito quel mondo lì, finita l’Umbria Rossa. invece di farsi interpreti di un nuovo blocco sociale imperniato sulle nuove subalternità (con grandi rischi elettorali nell’immediato) gli eredi dei comunisti hanno scelto la scorciatoia del clientelismo. Cioè del farsi garanti di piccole e grandi rendite di posizione di pezzi di società che si riproducevano nel rapporto clientelare con il partito e le istituzioni. In questo senso il Pd è stato un passaggio tutt’altro che innaturale, i democristiani in questa operazione essendo maestri (tanto che pian piano si sono messi in tasca tutti gli ex comunisti). Finché la barca andava questo ceto politico ha potuto dare un’illusione di continuità – vedi i fasti della gestione Mps negli anni 90. Ma per fare clientelismo (sì lo so che siete suscettibili, ma clientelismo non vuol dire necessariamente malversazione; vuol dire quello che ho spiegato sopra) ci vogliono i cordoni della borsa pronti a dischiudersi. La crisi ha dato il colpo di grazia a questo sistema, con un paradosso divertente: austeri a Roma, i piddini si sono scavati la fossa da sé con l’austerità imposta anche e soprattutto a livello locale. La destra non cresce, si limita a raccogliere il fallimento di una strategia intrapresa 30 anni fa che di rosso non aveva un bel nulla, anzi era una roba da democristianacci.

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