Due bicchieri di Aperol Spritz
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La svolta pop di Ponte San Giovanni

 

Alla fine del piccolo tour intorno all’ombelico di via Cestellini, l’asse che taglia Ponte San Giovanni in direzione nord-sud, delimitato sopra dallo sbocco in via Manzoni e da un accidentato accesso tramite scale alla stazione ferroviaria, e sotto da una sorta di vicolo cieco che non consente di transitare al di là della E45, con Mariano Sartore ci sediamo al tavolo di un bar e chiediamo al cameriere due spritz. Lui, docente di Tecnica e pianificazione urbanistica all’Università di Perugia, ha origine veneziana, e nell’attesa mi racconta la storia della nascita di questa bevanda nata nella sua terra d’origine all’alba dell’Ottocento: Napoleone firma il trattato di Campoformio e lascia il Veneto agli austriaci, così le truppe di Francesco I, avvezze alla più morbida birra, arrivate in questa landa scoprono il vino, che qui scorre a fiumi ma ha una gradazione più alta. Il risultato è che nel primo pomeriggio i soldati sono già più che alticci. Allora si prova a mettere dell’acqua nella bevanda, nel tentativo di alleviarne gl effetti; via via però, l’acqua diventa sempre di meno, tanto da diventare una spruzzata, uno spritz, appunto. Mentre Sartore parla, penso che anche questa vicenda, come tutto ciò che ha costituito le ultime due ore di conversazione con lui, si compone di una cornice generale – la grande storia – e di particolari accidentali, che però contribuiscono anch’essi a costituirla: il vino, i soldati austriaci che arrivano e ne abusano, e molto altro.

Le cornici e i particolari

Nel giro intorno a via Cestellini, Sartore mi mostra in effetti un sacco di particolari che l’occhio di un profano non coglie: l’uscita della scuola che dà direttamente sulla strada, privata della soluzione di continuità di un marciapiede per far sostare e mettere in sicurezza ragazzi e ragazze; lo spazio antistante la chiesa che è un parcheggio e non consente quella pratica di socialità all’uscita dalla messa che è la chiacchiera con i conoscenti. Si tratta di piccole escrescenze che emergono all’interno di una cornice generale, che è costituita da una città satellite che conta 20 mila residenti, cresciuta nei decenni a suon di lottizzazioni, con la rendita fondiaria e quella dell’edilizia a tratteggiarne la morfologia. È questa evoluzione in cui determinati interessi hanno avuto la meglio su altri che determina la situazione attuale: una piazza che è un non luogo, tranne al giovedì, quando si anima col mercato degli ambulanti; e più in generale uno spazio pubblico che è costituito da palazzi e strade ad alta percorrenza, che di fatto dimensiona gli umani a una specie chiusa in casa o in auto.

Il prodotto e il processo

La necessità di ritornare a una dimensione umana dello spazio pubblico è la cornice generale all’interno della quale Sartore e i dodici neolaureati che l’hanno coadiuvato negli ultimi mesi ad attivare un processo di trasformazione dal basso hanno inserito una serie di particolari preziosi che tentano di invertire un senso. Ci potremmo dilungare sul prodotto di questo lavoro, importante, che ha preso le sembianze di un progetto di massima: la piazza che recupera il ruolo di centro della vita pubblica, le sedi stradali dedicate alle auto ridotte di dimensione e l’istituzione dei sensi unici per consentire, ai lati delle carreggiate, margini adeguati in cui far fluire la vita dei ragazzini e delle ragazzine che giocano, le piste ciclabili in sicurezza, le persone che passeggiano o si siedono su una panchina, e in cui mettere a dimora alberi per delimitare spazi e segnalarne la nuova modalità di fruizione; e ancora: lo sfondamento al di là della E45 a sud e al di là della stazione al nord, come la ripresa di un respiro dell’intera via. Ma se già il progetto di massima che ne è scaturito segnala come quell’area ha tutte le potenzialità per diventare un modello di buona pratica per ridisegnare la città a misura di umani, c’è anche di più. Perché l’elemento con la portata più trasformativa è quello del processo attraverso il quale si è arrivati a quel prodotto. C’è già un dato di partenza a segnalare come stavolta Perugia si collochi all’avanguardia. L’ambito nel quale ci si è mossi è all’interno di una misura finanziata con fondi statali che si chiama Pinqua (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare) e che ha dotato il Comune di Perugia di 14,8 milioni, ai quali Palazzo dei Priori ne aggiungerà altri quattro. Il Pinqua ha finanziato 112 progetti in tutta Italia in 75 Comuni. Bene: solo in quattro di questi l’attività di progettazione, almeno di una parte dei lavori, è stata fatta coinvolgendo davvero la cittadinanza.

Il senso della partecipazione

Perché davvero? Perché la partecipazione può essere declinata in molti modi. È partecipazione anche la comunicazione di un progetto che cambia la faccia dell’ambiente circostante da parte dei vertici comunali ai residenti. Ed è considerata partecipazione anche una singola riunione in cui ognuno dice la propria e poi si ritorna a casa e tutto rimane come prima. Qui la partecipazione ha assunto la sua veste più generativa. Ci sono stati giorni di incontri, suddivisioni in tavoli, decine di persone coinvolte (alla fine del processo sono state una sessantina). Sono state presentate le buone pratiche di fruizione dello spazio pubblico di alcune città europee, sono stati fatti dei tour fotografici durante i quali i luoghi e le persone sono stati immortalati per capire davvero come spazi e uomini e donne interagiscono oggi tra le strade, le auto e il cemento dei palazzi. È stata fatta cioè fatta un’opera di sutura e di ricostituzione già in questa fase dello spazio pubblico, con la realizzazione di un momento di discussione e confronto a partire dalle esigenze degli umani che gli spazi li abitano. Il sapere degli esperti si è mescolato alle esigenze che emergevano dal magma degli incontri, e non sono state sempre rose e fiori, perché la partecipazione, se agita davvero, sa essere anche faticosa. Ma quei sensi unici, quel ridimensionamento delle sedi stradali, quella nuova idea di verde urbano e di vita pubblica sono oggi patrimonio comune delle persone che hanno partecipato. Delle persone comuni come degli esperti, che qui hanno abbandonato il pulpito e sono scesi a fare i facilitatori. «Io stesso ho dovuto studiare di nuovo e farmi delle domande – mi dice Sartore – perché non sapevo molto, ad esempio, di assetto dei mercati ambulanti, e perché i processi a volte sono stati complicati, anche aspri».

Una nuova democrazia

La partecipazione ha una messe di implicazioni, su cui però ne spiccano almeno un paio: si può dire la propria, ma ci si deve mettere in una posizione di ascolto di quella degli altri; e poi, in genere, ci si arrende di fronte alla competenza e alle esigenze meglio argomentate. La partecipazione è il contrario dello sfogatoio, è anzi assunzione di responsabilità adulta; gli egoismi ne sono banditi per definizione; è acquisizione di consapevolezza e azione civile. È un esercizio di democrazia radicale; che intanto ha il benefico effetto di risollevare le nostre rachitiche democrazie ormai private di quelli che un tempo avremmo chiamato corpi collettivi, ridotti ormai a dei comitati elettorali che si ravvivano solo in prossimità di un qualche tipo di elezioni; e private anche delle circoscrizioni, finite sull’altare di un dubbio efficientismo, cosa che ha fatto sì che una città delle dimensioni di Perugia, estesa per centinaia di chilometri quadrati, venga rappresentata istituzionalmente da una trentina di consiglieri residenti a Palazzo dei Priori.

Dal pubblico al comune

È questo impasto di elementi, che nel lavoro di coprogettazione fatto a Ponte San Giovanni da teoria si sono trasformati in pratica innovativa, che rende il processo perfino più importante del prodotto. Certo, se non ci fosse stato il secondo, sarebbe stato difficile parlare del primo. Ma è difficile sfuggire alla sensazione che senza questo nuovo modo di progettare, senza questo poggiare le basi sulle esigenze delle persone, la nuova via Cestellini avrebbe continuato a essere un’arteria per veicoli, solo un po’ imbellettata grazie ai fondi statali, e la piazza avrebbe continuato a essere senz’anima; e forse i ragazzini e le ragazzine della scuola avrebbero avuto il loro marciapiede, ma non sarebbero stati considerati cittadini con diritto di gioco in strada, come invece sarà. E non finisce qui. Prendere confidenza con queste pratiche di democrazia radicale, è a sua volta un processo che non si esaurisce nel prodotto finale. Capire che si può incidere, che si può cooperare per rendere lo spazio pubblico a misura di umani, può essere la leva per passare dal pubblico al comune. Che non è un cambio lessicale, ma un salto logico, una progressione geometrica: è l’inverare la democrazia, è il trasformare le cose affinché diventino utilizzabili da tutti ma di proprietà esclusiva di nessuno. Perché di tutti e tutte, perché nate col contributo di tutti e tutte. È questa la svolta popolare, pop nel senso più profondo del termine, che ci indica questo piccolo pezzo di storia di Ponte San Giovanni, e che va molto al di là della frazione perugina poiché indica una modalità. Perché la partecipazione è una cornice all’interno della quale, di volta in volta, vanno calati i particolari che servono; non è una regola generale, a volte è frutto anche del caso: come la storia dello spritz.

Foto di Sarah Stierch da wikimedia commons

Un commento su “La svolta pop di Ponte San Giovanni

  1. Quando la lungimiranza di un docente riesce a trascinare i suoi allievi nel saper vedere avanti per superare gli errori del passato…Le nostre città hanno bisogno di vita…di vita vissuta nella sua condivisione degli spazi ..per superare il senso di dormitorio dove l’essere umano si isola e chiude in se stesso…

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