Nel cuore di Terni, in piazza del Mercato, sorgeva appunto il vecchio mercato, abbandonato da anni. Quell’area un tempo cuore pulsante e ora divenuta una sorta di simbolo del declino della città, è stata oggetto nel 2017 di una delle più importanti e innovative manifestazioni che siano mai state ospitate a Terni: “Concerto dai balconi” portò una serie di band a esibirsi dalle terrazze che si affacciavano sulla piazza messe a disposizione dai proprietari delle case che nei mesi precedenti erano stati “ingaggiati” da un manipolo di volenterosi convinti che l’arte possa essere una leva per ricostruire comunità. Nell’ambito di “Concerto dai balconi” l’artista Murales Lian dipinse un murales che è stato demolito col resto del vecchio mercato. È di questa storia che parliamo nell’articolo
A Terni hanno demolito un vero mercato e un muro. Non era un muro qualunque: su quella superficie, l’artista Murales Lian aveva dipinto una storia di dolore e umanità, il naufragio di migranti nel Mediterraneo. Quell’opera non era nata per caso: faceva parte di un progetto dell’associazione Arciragazzi “Gli Anni in Tasca”, finanziato dall’8×1000 della chiesa valdese e inserito nell’evento Concerto dai balconi del 2017. Un’iniziativa di arte pubblica e partecipata che immaginava il riutilizzo sociale di un vecchio mercato cittadino, abbandonato da anni.

Una struttura maestosa, un cubo nero di ferro, cemento armato e vetro che dominava la piazza come un presagio. Quel vecchio mercato ricordava il monolite di “2001: Odissea nello spazio”: imponente, enigmatico, quasi alieno nel suo silenzio. Come nel film, la sua origine e il suo scopo erano diventati un mistero – un enigma sepolto sotto strati di incuria e oblio. Finché, su quel muro, il murales non aveva acceso una scintilla di significato: la memoria al posto del vuoto, l’arte nell’abbandono. Ora, al posto dei colori e del messaggio, resta solo polvere.
Perché cancellare un atto di resistenza?
Distruggere un’opera come questa non è un semplice atto edilizio: è un silenzio imposto. Quel murales era arte partecipata, nata da un progetto condiviso, finanziato con gesti concreti di solidarietà. Rappresentava un patto tra comunità e territorio: ricordava le vittime del mare mentre ridava vita a uno spazio dimenticato. Demolirlo significa negare tutto questo, come se quelle storie – e chi le ha sostenute – non avessero diritto a esistere.
Decisioni senza comunità
Nessuno ha chiesto il parere di chi quel murales lo aveva voluto, dipinto o vissuto. Il vecchio mercato, già emblema di abbandono, diventa ora il teatro di un altro sfregio: la mancanza di partecipazione. Quel progetto era nato per coinvolgere, per ridare voce a un luogo attraverso l’arte. La sua cancellazione, invece, è stata un monologo. E così, mentre il muro crollava, crollava anche un pezzo di fiducia nel diritto alla città, nella possibilità di decidere insieme sul proprio spazio.
Il naufragio e la città che affonda.
C’è un’amara ironia nel fatto che un murales sul naufragio dei migranti sia stato a sua volta inghiottito dall’indifferenza. Quell’opera era un sintomo di salute civica: dimostrava che Terni poteva ancora interrogarsi, prendersi cura delle ferite del mondo e delle proprie. La sua demolizione, invece, assomiglia al declino di una città che rinuncia a essere comunità. Come i corpi in mare, cancellati dalle onde, anche quel murales è stato rimosso senza lasciare traccia. E con lui, forse, affonda un pezzo di coscienza collettiva.
Epilogo: al posto del monolite, scaffali di plastica
Ora, dove un tempo si ergeva quel cubo nero – simbolo di un’epoca in cui gli spazi pubblici osavano ancora essere celebrati e immaginati, anche nel loro fallimento – sorgerà un ennesimo supermercato. Una cosa di cui Terni non ha bisogno, ma che qualcuno ha deciso fosse necessaria.
Il “monolite”, nella sua oscurità, rappresentava l’ignoto, il salto evolutivo. Il nuovo tempio del consumo, invece, non nasconde alcun mistero: è la banalità fatta edificio. Al posto di un luogo vivo – dove l’arte e la partecipazione avevano provato a riaccendere il dialogo – avremo scaffali pieni di merce e vuoti di senso.
Sarà un posto pulito, ordinato, forse persino luminoso. Ma saranno sempre macerie – macerie abbellite, riverniciate di loghi e offerte speciali. Macerie di un’idea di città che poteva essere diversa: una città che sceglieva la memoria al posto dell’oblio, la comunità al posto del consumo, l’umanità al posto del profitto.
Forse quel murales, prima di essere cancellato, aveva già predetto tutto: in un mondo che affoga nell’indifferenza, anche le città possono naufragare. Senza fare rumore, senza lasciare traccia – come il monolite che svanisce nel buio dello spazio.
Contro il semplicismo comprensibile (la banalità del dire) sempre
Non rimane spazio, se non per l’odissea che contraddistingue la crepuscolarità tipica di ogni oblio, in quella piazza ternana luogo storico di scambi di merci e di saperi, dove uno iato irripetibile di vecchia non agibilità e nuova speculazione era riuscito a imporre il silenzio alieno in luogo del classico vocio urlato da fiera permanente, un silenzio rotto da un muro dove i colori si sono fatti significati e i significati antidoti all’apatia che sottende e sovrasta ogni incuria. Dove l’arte, incrociando la maestria singolare dell’artista con la partecipazione volontaria dei tanti, aveva provato, con la fugacità permanente che appartiene al “ladro” che si riappropria del maltolto, ad andare oltre il degrado dell’abbandono presente “minacciato” dal decoro del patinato commerciale futuro. Una via altra quella della comunità che si riprende, attraverso le forme variegate della creatività, i mattoni pericolanti della città per trasformarli in cornici immanenti che non vogliono contenere, nel senso di limitare, e che intendono urlare nel tentativo di significare. Ma si sa non c’è peggior nemico dell’asettico del tempio dello scambio che produce valore negando sapere per una collettività che pretende di partecipare, che si illude di poter essere parte attiva nella (ri)definizione degli spazi comuni. Non c’è arte che tenga, non c’è messaggio che rimanga, solo la superficie liscia di un capitale che sovrano impone il proprio decoro sul proprio abbandono. Un solipsismo autoreferenziale che non vuole attori né comparse, ma semplici spettatori senza diritto di critica. Uno spartito senza musica che fa della banalità nota e del rigo qualunquismo contenitivo. L’indifferenza cinica di un sistema senza alternativa, che fagocita sentimenti illuminando scaffali, che moltiplica merci cancellando memorie. Così come la profondità del mare conserva omertosa i corpi migranti vittime dell’agitarsi dell’onda e della precarietà del natante, la superficialità della vetrina ostenta la sacra legge del profitto a mo’ di monolito totemico, una simbolicità opposta che non riconosce umanità e che fa del naufragio delle passioni cartografia cittadina. Un rumore silente senza eco né scia, che tutto comprende, che tutto cancella.