L'entrata dello stabilimento elettrochimico di Papigno, foto da archeologiaindustriale.org
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Migliaia di edifici vuoti, ma il cemento non si ferma

 

Possono essere le vestigia delle ex industrie metallurgiche a Spoleto, i casolari ridotti a rudere che punteggiano i campi intorno al lago Trasimeno, l’ex mercato ortofrutticolo di Perugia, i tanti ex mattatoi sparsi qua e là in centri di varie dimensioni. Può essere un centro sociale desertificato da un’ingiunzione di pagamento insormontabile, come è successo a Ponte San Giovanni, alle porte del capoluogo; può essere un vecchio stabilimento, come quello di Papigno, a pochi chilometri da Terni, il cui scintillante tentativo di riconversione in studi cinematografici è fallito ormai vent’anni fa. Perché la storia va avanti ma il cemento, la burocrazia e la mancanza di immaginazione restano graniticamente immobili. E i simboli dell’abbandono rimangono lì. Sono tanti e diversi, e ognuno ricorda i suoi, a seconda di dove si viva e dei luoghi che si frequentano. Fanno così parte integrante del panorama che non ci scandalizziamo neanche più per il brutto e lo spreco che rappresentano.

Io per esempio, ogni volta che esco di casa mi imbatto in una ex area industriale demolita; intorno e dentro sono cresciuti arbusti di ogni tipo. Potrebbe diventare una piazza, in un quartiere che non ne ha nemmeno una. Invece no. Se continuo a camminare, poco più in là mi lascio sulla sinistra uno scheletro di palazzina che sta lì da un decennio. L’hanno abbandonato in tutta fretta, a giudicare dalle impalcature arrugginite che ancora lo cingono. La società che la stava realizzando è fallita. Lo scheletro è rimasto lì. Poco più avanti, quando trovo il semaforo rosso, il mio sguardo è inevitabilmente attirato da un’altra palazzina al di là della strad; questa ebbe una vita ma è stata abbandonata, anch’essa da anni. Nel frattempo lì intorno sono stati tirati su ex novo la caserma dei vigili del fuoco e diverse altre costruzioni – residenze e uffici. E un paio di centri commerciali-supermercati, autentici nuovi soli intorno a cui orbita la vita. Il nuovo cemento che si affianca all’abbandonato. Una regola impietosa. Con il suolo che continua a essere mangiato, pezzettino a pezzettino, a causa di questa contraddizione che è sotto gli occhi di tutti, ma alla quale nessuno pare essere in grado di porre rimedio. Perché la proprietà privata è intoccabile anche quando imbruttisce i luoghi con i suoi residui ingombranti; perché il “pubblico” ha sempre altro a cui pensare, piuttosto che sanare ferite; e perché costruire genera soldi. E i soldi sono sacri, li abbiamo eletti a motore di tutto: anche dell’imbruttimento dei panorami in cui sono immerse le nostre vite.

Il consumo di suolo anche in aree a rischio

Questo insieme di ragioni ha fatto sì che nel 2019 in Umbria siano stati mangiati, secondo i dati dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale), 67,9 ettari di suolo, in Italia 5.186. Complessivamente, le porzioni di territorio irreversibilmente sottratte all’ecosistema del suolo per essere ridotte a base per la realizzazione di case, capannoni, supermercati, strade e quant’altro, nel nostro paese ammontano a oltre due milioni di ettari; in Umbria gli ettari mangiati dalle costruzioni sono 44.351 in tutto. Di questi, rileva l’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale), la quasi totalità si trova in territori classificati a pericolosità sismica “alta” o “molto alta”. 1.324 ettari risultano consumati in aree a “pericolosità idraulica elevata”; 187 in zone a pericolosità di frane “alta” o “molto alta” e 684 sono quelli dove si è costruito a meno di 150 metri di distanza da corpi idrici. Consumare suolo in presenza di certe criticità non fa che dare luogo a vulnerabilità. Costruire sottrae terra per l’agricoltura, impermeabilizza il terreno, cosa che non consente di drenare acqua e ne determina anzi la velocizzazione e l’aumento della portata in caso di esondazioni o alluvioni; cementificare indebolisce la tenuta, poiché in genere costruire significa tagliare alberi, che con le loro radici formano un reticolo che è presidio contro le frane; è stato rilevato infine che la differenza di temperatura tra zone ad alta densità di costruzioni e territori naturali o semi-naturali varia da un minimo di 2 a un massimo di 6 gradi. Nonostante ciò, si continua a mangiare territorio: il 7,1 per cento a livello nazionale e il 5,25 per cento in Umbria è ormai andato. E questo avviene malgrado ci sia una immensa mole di manufatti abbandonati o non utilizzati. Questo è il paradosso che ci porta a osservare spesso, a pochi metri gli uni dalle altre, costruzioni in divenire e immobili abbandonati.

I numeri dell’abbandono

Secondo il Sole24Ore sarebbero 750 mila gli immobili abbandonati in Italia. Abbiamo cercato di andare un po’ più in profondità. Secondo un documento dell’Anci – l’Associazione dei comuni italiani – risalente al 2015, in Italia ci sarebbero 9 mila km quadrati di aree industriali dismesse, una superficie che corrisponde all’intera Umbria. La ricerca dei dati relativi a questa regione porta ai risultati di un censimento della Regione aggiornato al 2012 in cui compaiono 90 ex siti, 76 in provincia di Perugia e 14 in quella di Terni. Chiunque abbia dimestichezza con le cronache regionali e si trovi a scorrere l’elenco sa bene come alcuni di queste zone siano state oggetto di ripetute titolazioni-annuncio nei giornali locali alle quali, sovente, non ha corrisposto alcun seguito di riqualificazione se non, per alcune, dopo anni di rimpalli burocratici. Ancora: secondo il sito realestatediscount.it, ci sono, nel momento in cui si sta scrivendo questo articolo, 1.193 capannoni all’asta in Italia, 49 dei quali in Umbria. L’Anas informa che ci sono 1.244 case cantoniere, «di cui la metà sono utilizzate come sedi operative». Le restanti seicento l’ente le sta mettendo all’asta alla spicciolata per farne dei luoghi in cui offrire ospitalità e ristorazione. Ferrovie dello Stato informa che ci sono oltre 2 mila stazioni impresenziate sul territorio nazionale che l’ente sta tentando di dare in comodato d’uso ad associazioni che spesso vi realizzano progetti di ottimo impatto sociale. L’agenzia del Demanio ha messo all’asta nel luglio scorso 93 immobili, di cui otto in Umbria, un patrimonio variegato: ex caserme, ex stabilimenti, ex conventi, ex carceri, fari, palazzine ex sedi di agenzie nazionali. Secondo Cittadinanzattiva, solo di caserme, ci sarebbero 4,3 milioni di metri cubi abbandonati. Il sito paesifantasma.it ha censito in Italia 211 centri abbandonati in Italia, di cui quattro in questa regione, e 124 luoghi abbandonati (due in Umbria). Però si continua a costruire, costruire, costruire.

Sempre più ipermercati

Dall’ultimo censimento effettuato dall’Istat si desume che nel 2011 in Italia c’erano oltre 7 milioni di case non abitate, 89.248 erano in Umbria. Gli edifici inutilizzati erano oltre 743 mila, 10.820 in questa regione. A fronte di ciò, dal 2012 al 2019 in Italia sono stati consumati 37.497 ettari; in Umbria nello stesso periodo sono stati mangiati 861 ettari, il 2,2 per cento del totale. Nel medesimo intervallo di tempo, sempre secondo i dati Istat, sono stati dati permessi per costruire 431.027 nuove abitazioni e per realizzare 78.765.412 metri quadrati di superfici in fabbricati non residenziali. In Umbria solo nel 2012, nonostante la crisi, sono stati rilasciati 375 permessi di costruire. E sono cresciuti centri commerciali come funghi dopo la pioggia: l’Osservatorio nazionale sul commercio del ministero dello Sviluppo economico informa che in soli tre anni, dal 2015 al 2018, la superficie occupata da supermercati, ipermercati, grandi magazzini e grandi superfici è aumentata di 1.656.499 metri quadrati, cioè di oltre il 7 per cento. E l’Umbria, detto per inciso, con 558 metri quadrati di superficie ogni mille abitanti, è la terza regione per incidenza della grande distribuzione in Italia, dietro solo a Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia. È da questi dati che si compara come la proprietà privata sacralizzata anche quando è abbandonata, dà luogo a disfunzioni di sistema di cui soffriamo tutti: persone, paesaggio, clima ed ecosistema. Perché i fantasmi abbandonati rimangono lì, e nel frattempo si continua a cementificare, spesso per costruire cattedrali del consumo che desertificano il resto delle città.

I tentativi di rimediare

In alcune regioni si è tentato di rimediare. La Lombardia, che non è stata mai regione governata né da bolscevichi né da fondamentalisti ambientalisti, ha approvato una legge nel 2012 in cui sono previsti incentivi per i proprietari di aree abbandonate che stipulino accordi per la realizzazione sulle stesse di alloggi di edilizia residenziale sociale. I proprietari di aree industriali dismesse invece, possono essere invitati dai Comuni a presentare un piano per il riutilizzo. Trascorsi 12 mesi e non avendo ricevuto progetti, i Comuni possono avviare l’iter per la riconversione dell’area. Anche l’Emilia Romagna si è dotata di una norma sulla tutela e l’uso del territorio, che prevede però vincoli meno stringenti rispetto a quelli previsti in Lombardia. In Umbria siamo fermi al censimento di cui si è detto che risale a otto anni fa. E nel programma della presidente Tesei, la locuzione “aree dismesse” compare una sola volta, per di più tra parentesi e a titolo di esempio, a pagina 40 in documento di 48 pagine (provare per credere).

Che fare, allora? Burocrazia, assetto normativo e intangibilità della proprietà privata anche quando essa ha poco a che vedere con la funzione sociale prevista dall’articolo 42 della Costituzione, fanno propendere per uno sforzo di innovazione, anche per scongiurare, come accade spesso, che i progetti di riqualificazione diventino occasioni per nuove speculazioni a vantaggio di pochi. Il sito disponibile.org elenca invece 38 esperienze di riuso sociale di spazi abbandonati che potrebbero fornire un’indicazione su come agire che si basa su pochi punti fermi: sburocratizzazione degli iter e trasformazione in beni comuni dei manufatti abbandonati. Beni comuni significa beni gestiti da libere associazioni di cittadini a partire da bisogni individuati collettivamente. Per la realizzazione di uno scenario del genere servono però fermento sociale e sponde istituzionali che in questa regione paiono entrambe da rigenerare a loro volta, se si vuole uscire dalla morsa della tenaglia brutto-spreco.

Nella foto, tratta dal sito www.archeologiaindustriale.org, l’entrata dello stabilimento elettrochimico di Papigno, in provincia di Terni

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