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Cristoforo Colombo, Renzo Piano e il ponte di Genova

 

Cronache Umbre accoglie volentieri questa riflessione su di un tema solo in apparenza lontano dall’ambito regionale da cui, solitamente, trae spunto per gli argomenti trattati.
L’Umbria rappresenta poco meno del 4% del territorio nazionale e ne condivide, talvolta ampliati, problemi come dissesto idrogeologico, infrastrutture stradali e ferroviarie. Settori che richiederebbero lungimiranti politiche di manutenzione quando non di rifacimento strutturale. In questa fase il nodo principale da sciogliere è il tempo di realizzazione non la disponibilità di fondi. (La Redazione)

Cosa accomuna la celebre archistar al leggendario navigatore che scoprì l’America? La grande passione per il mare e l’essere entrambi nati a Genova. Ma c’è una terza qualità che, assai più delle prime due, li ha resi meritatamente famosi: quella di saper affrontare problemi complessi ed apparentemente irrisolvibili per mezzo di soluzioni semplici. Narra infatti la leggenda che, durante un banchetto in suo onore, Cristoforo Colombo fu fatto oggetto di scherno da alcuni commensali che cercarono di sminuire il valore della scoperta delle Indie Occidentali ritenendola alla portata di qualsiasi navigatore. Allora il genovese, li sfidò alla prova di far stare in piedi un uovo sfoderando la soluzione geniale diventata leggenda.
Questo celebre episodio, mi è tornato in mente leggendo alcuni esilaranti commenti sul Ponte di San Giorgio recentemente inaugurato reo di essere costoso, architettonicamente banale e perfino irrispettoso del nuovo Codice della Strada. Tralascio per spirito di corpo di commentare quelli di alcuni colleghi architetti, tra i più disarmanti. È senz’altro legittimo ritenere, ad esempio, che la soluzione proposta per attraversare la valle del Polcevera da Santiago Calatrava fosse assai più accattivante dal punto di vista estetico o che, sotto l’aspetto meramente trasportistico una modifica al tracciato, seguendo le norme del nuovo Codice della strada, sarebbe stata preferibile consentendo una maggiore velocità di percorrenza.

Ma nessuna di queste soluzioni avrebbe probabilmente saputo meglio interpretare lo spirito di una città ferita attraverso un opera che, come ha affermato in un memorabile discorso il suo geniale ideatore, “attraversasse la valle passo dopo passo, in silenzio, quasi chiedendo il permesso…” perché, “….sospesi tra il cordoglio di quella tragedia e l’orgoglio di essere riusciti a realizzarla in tempi rapidi, ma senza fretta”, una soluzione diversa, dal carattere trionfalistico e formalmente esuberante, sarebbe stata palesemente dissonante e fuori luogo. La felice riuscita di quel progetto – potenza dell’architettura – è stata sintesi e risultato al tempo stesso dell’efficacia delle soluzioni tecniche prescelte che ne hanno reso possibile la realizzazione in tempi inimmaginabili nel contesto italiano ma, soprattutto, della scelta di un linguaggio misurato, a mio parere il più appropriato e rispettoso in un contesto tragico come quello che lo ha generato. Una soluzione nel suo insieme semplice ma geniale, come quella dell’uovo di Colombo.
La brillante riuscita dell’impresa nasconde tuttavia alcune pericolose insidie: il Ponte di San Giorgio ideato da Renzo Piano, secondo alcuni autorevoli punti di vista, sarebbe stata resa possibile dall’applicazione del cosiddetto “Modello Genova”: un approccio operativo e gestionale che ha potuto giovarsi del massimo impiego di super-poteri in capo a figure commissariali, deroghe al Codice degli appalti e alle norme extrapenali, sacrificando principi generali come la concorrenza, la trasparenza, ecc. Molti lo hanno scritto e gridato: l’applicazione generalizzata del Modello Genova risolverebbe finalmente l’atavico problema della realizzazione delle opere pubbliche nel nostro paese. Una soluzione ancora una volta semplice e geniale – ma questa volta solo in apparenza – come quella dell’uovo di Colombo. La questione sarebbe di scarso interesse se non fosse per il fatto che il fascino irresistibile della ‘soluzione finale’ sta facendo pericolosi proselitismi: per quale ragione si dovrebbe infatti continuare ad applicare il Codice che ha generato inefficienze, burocratismi ed infinite complicazioni quando si potrebbe operare con la certezza di tempi e risultati impiegando il nuovo metodo che ha dimostrato di funzionare perfettamente? Sul fronte opposto, le truppe del partito della conservazione schierate a difesa dei sacri principi della legalità e della trasparenza, continuano a difendere ostinatamente un apparato normativo che solo chi non vi ha avuto a che fare può ritenere adeguato alle esigenze di efficienza ed efficacia proprie di un paese civile.
Personalmente sono per una radicale riscrittura del codice. Ho iniziato ad occuparmi di opere pubbliche in vigenza del Regio Decreto n.359 del 1895, una norma ispirata ai principi della contabilità di Stato la cui ratio era quella di utilizzare nel modo più efficiente ed economico possibile le risorse pubbliche. Per mezzo di questo ordinamento è stato possibile ricostruire nel dopoguerra le principali infrastrutture del paese realizzando in soli otto anni un opera come l’Autostrada del Sole: 755 km di tracciato, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi al ritmo di 94 km di strada finita all’anno, su uno dei tracciati più complicati ed impervi al mondo. Il Moma di New York dedicò una mostra “alla più bella autostrada del mondo” nel 1964, celebrando il genio, l’efficienza e il coraggio degli italiani. Il problema è sorto quando, come ha osservato un autorevole giurista come Fabio Cintioli, la priorità è stata spostata sul principio della concorrenza e sulla retorica dell’anticorruzione – obiettivi assolutamente condivisibili ma assai poco conseguiti – che hanno via via generato una palude di norme, regole, procedimenti che costituiscono l’attuale labirinto dei contratti pubblici. Nel nostro paese sono state infatti recepite le regole comunitarie aumentando a dismisura gli oneri procedimentali e gli obblighi di gara, mentre sono rimaste praticamente lettera morta la flessibilità decisoria e discrezionalità amministrativa che pure le stesse norme comunitarie avrebbero consentito. Così il principio di buon andamento dell’ amministrazione è diventato nei fatti recessivo rispetto a tutto il resto. Ora, a quanto si conosce, dopo la doverosa parentesi di sospensione dovuta alla pandemia, il Codice verrà riscritto in tutto o in parte. Ma se non si comprendono fino in fondo le ragioni che, nonostante gli inutili sforzi volti alla semplificazione, hanno dato luogo ad uno dei sistemi burocratici più complicati ed inefficienti al mondo, il fallimento ancora una volta è assicurato: il quarto, dopo i tre precedenti in poco più di vent’anni.

Il “Modello Genova”, nella sua apparente semplicità ed efficienza, è il nuovo mantra: l’uovo di Colombo di chi ritiene che si possa riscrivere il Codice a colpi di deroghe e di super-poteri. Non è certo la strada giusta, ma lo è ancor meno quella di chi pensa che un semplice maquillage possa bastare lasciando nella sostanza tutto come prima. Ristabilendo innanzitutto una priorità coerente con il principio del “buon andamento” sancito dall’art. 97 della Carta Costituzionale: le norme sugli appalti hanno come obiettivo fondamentale l’esecuzione di un appalto operando in un ottica di risultato facendo sì che l’interesse dell’amministrazione costituisca il riferimento principale e costante. Non si tratta di abdicare alla legalità o alla concorrenza che restano i cardini su cui sviluppare il nuovo ordinamento; ma solo fare in modo che, come è purtroppo ripetutamente accaduto, perseguire tali principi non significhi trasformare ancora una volta in un inestricabile ginepraio un compendio di norme che dovrebbero innanzitutto perseguire efficienza ed economicità nell’impiego del danaro pubblico. Semplice in apparenza come l’uovo di Colombo, ma non in Italia.

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