Sui ricordi scritti di una persona che se n’è appena andata pende la minaccia della retorica. In una vicenda come quella di Laura Santi il rischio è elevato a potenza. Se sfidiamo la possibilità di cadere nella trappola è perché è Laura Santi stessa che ci ha invitato a continuare a parlare di lei, a fare in modo che la sua battaglia continui oltre lei.
Non si raccoglie una parabola esistenziale in un aggettivo, ma se ce n’è uno con cui tentare l’impossibile e provare a definire la Laura Santi pubblica è sovvertitrice.
L’hanno sottolineato in diversi: Laura Santi ha reso il suo corpo un fatto politico. Ma i corpi sono già di per sé un fatto politico: lo sono nelle pubblicità, nei canali social di presunti e presunte influencer, in show televisivi, nell’immaginario collettivo. Sono però corpi levigati, definiti, funzionanti. E se non lo sono, vengono esposti per il loro significato caricaturale. Laura Santi ha sovvertito tutto questo: ha esposto il corpo sofferente per farne battaglia politica. Ha ricordato che l’altra faccia della performance è il decadimento, esito inevitabile – anche al di là della patologia che a Laura è toccato di subire – che tendiamo a esorcizzare.
Laura Santi ha sovvertito anche la privatezza della malattia rendendola pubblica. Certo, la malattia è una dimensione di per sé individuale. Assume però rilevanza pubblica nel momento in cui occorre che ci prendiamo cura gli uni degli altri come comunità, cosa che nel caso di Laura e in migliaia di altre occasioni viene negata. Il welfare, forse la conquista di civiltà per eccellenza della parte di mondo in cui viviamo, è questo, anche se ce lo stiamo dimenticando. Laura ce l’ha ricordato sovvertendo anche in questo caso un ordine costituito che vuole i malati fuori dalla portata visiva e le loro famiglie a fare i conti privatamente con muri invalicabili.
Laura Santi, insieme al suo compagno Stefano Massoli, ha mostrato che i ruoli di genere, che apparentemente sembrano naturalmente dati, si possono ribaltare, e che può darsi anche che dietro una grande donna ci sia un grande uomo; non solo il contrario, come il nostro immaginario è abituato a vedere.
Ed è stato il compagno a riportare in vita dopo la morte Laura, pubblicando il video che lei ha registrato prima di inocularsi il farmaco che l’avrebbe spenta. Un altro sovvertimento che ha consentito a Laura di parlare da un al di là dal quale ha reso ancora più evidenti le piccolezze di decisori politici abitatori di un mondo virtuale tutto loro che li ha disabituati a fare i conti con il reale.
Quell’ultimo video – lei viva ma già spenta – è stato il sovvertimento estremo di Laura per ricordare pubblicamente che vita e morte sono inscindibilmente legate, e che una vita degna è anche una degna morte.
La vicenda di Laura Santi è così enorme che circoscriverla alla sua persona e alla malattia che ha umiliato il suo fisico avrebbe l’effetto di anestetizzarne la portata. Questa vicenda ci ricorda che le risorse, l’assistenza, l’empatia, gli strumenti, i farmaci, le strutture per chi vive situazioni di disagio – fisico, sociale, mentale – sono la priorità, e che tutto il resto, ma proprio tutto, viene dopo.
Dovremmo ricordarla Laura Santi, dedicandole una via, un evento ricorrente, e, infine, delle pratiche nuove. Sovvertitrici. Per ricordare a noi stessi che ci rimane molto da sovvertire per conquistare civiltà, anche se ci riteniamo civilissimi.
Condivido in pieno l’idea di intitolare uno spazio pubblico a Laura Santi.
Un luogo frequentato dalla cittadinanza, perché quel nome continui a risuonare più profondamente della semplice utilizzazione toponomastica (magari in una zona spopolata).
Servirebbe ad ammonire tutte le persone perché si smettano di girare la testa “dall’altra parte” quando si parla di temi poco rassicuranti per i quali nessuno, proprio nessuno, ha una parola definitiva.