Il primo negozio della Perugina
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La lezione della Perugina

 

Queste considerazioni, stralciate dal mio libro Quasi come Forrest Gump, sono qui riportate per inserirmi nel dibattito apertosi dopo la pubblicazione dell’articolo sulla Perugina di Giuseppe Mattioli.

Ho conosciuto Giuseppe nei primissimi anni ‘70, quando era segretario della sezione Pci, poi siamo stati delegati sindacali del I° cConsiglio di fabbrica. I sei anni della gestione di Paolo Buitoni a capo della IBP coincisero con le mie esperienze in politica, nella Dc e come rappresentante sindacale dei quadri. Le mie conoscenze e competenze teoriche e pratiche in materia di stra­tegie aziendali e politica industriale furono apprezzate dal con­siglio di fabbrica e dal sindacato, tant’è che partecipai, per la Cisl, alla stesura della relazione per la “Conferenza di Produzione” nel 1976, per la parte riguardante l’analisi economica e il marketing. Secondo me si doveva prendere atto che le forti pressioni sindacali sul superamento della stagionalità della produzione del cioccolato non avevano prodotto alcun risultato positivo ma, al contrario, con la linearizzazione della produzione nel corso dell’anno, a cui seguiva lo stoccaggio dei prodotti finiti nelle celle frigorifere, la qualità del prodotto veniva sensibilmente a scadere.

Il focus dell’impostazio­ne fornito alla “Conferenza di Produzione”, con l’intervista che il segretario regionale della Cgil, Paolo Brutti dette a L’Unità il 14 febbraio del 1976, era centrato sulla volontà di un protagoni­smo della classe operaia, per maturarsi oltre la stagione della “lotta dura e pura”. Si evocavano ruoli dirigenziali nell’elaborazione della strategia per le condi­zioni dello sviluppo, non solo salariale. Ad essi si accompagnava l’assunzione di una responsabilità di ricognizione complessiva del tessuto produttivo. “La vera posta in gioco – affermava Brutti – è l’assetto complessivo della base produttiva e dello sviluppo”. Fu questo il concetto di fondo di un’evoluzione del sindacato, verso una governance IBP che lo responsabilizzasse nelle funzioni di una cogestione della base produttiva, e la produttività doveva coinvolgere in prima persona l’organizzazione dei lavoratori e del lavoro, anche nelle sue implicazioni tecnologiche. Un fatto importante fu la partecipazione alla con­ferenza del responsabile delle relazioni industriali del gruppo, Francesco Pappalardo, e di altri esponenti dell’alta dirigenza. Era un segnale di colla­borazione con il sindacato, perché la IBP aveva bisogno di un periodo di tranquillo traghettamento, dalla tradizionale dimensione padronale nazionale a quella ambiziosa di multinazionale alimentare, volta allo sviluppo di investimenti e occupazione, perché or­ganizzata in una struttura reticolare di linee tecnologiche in funzione del marketing. L’organizzazione di fabbrica dell’offerta doveva essere funzionale alla domanda del target dei consumi dei mercati di riferimento, e non viceversa come era accaduto nel passato.

La strategia di Paolo Buitoni, se concettualmente valida secondo la teo­ria delle “sinergie”, si rivelò debole, per due motivi fondamentali: mancaro­no i fattori di successo per un flusso positivo della domanda di consumo; inoltre la struttura organizzativa di Buitoni e Perugina e il background culturale d’impresa non furono all’altezza della mission che l’amministratore delegato aveva assegnato ai nuovi Dipartimenti manageriali: “Occasioni sociali, Pasti principali, Infanzia, Colazione e merenda, Trasformazione: semilavorati per pasticceria e gelateria”. Occorrevano molta fantasia, energia e spirito creativo d’innovazione per star dietro alla strategia di Paolo Buitoni. Egli fu costretto a dare le dimissioni nel 1976. Lo sostituì suo cugino Bruno Buitoni; a lui il compito di ritornare alla situazione precedente. Si potrebbero fare ipotesi di simulazione con modelli ma­tematici per capire se il disegno di Paolo Buitoni, superata la crisi del mer­cato italiano degli anni settanta, con maggiori sostegni finanziari delle banche poteva decollare, forte della sua capacità propulsiva di imporsi sui mercati, finalmente propensi ad un buon livello di consumi pro capite.

Comunque, a fronte della crisi del merca­to interno, l’azienda non riuscì ad imporsi e conquistare nuove quote con i marchi Buitoni e Perugina sui mercati esteri, ameri­cani in particolare. Infatti la crisi dei consumi di quel decennio colpì so­prattutto l’Italia, ma non altrettanto i mercati del nord America, dove il gruppo poteva contare su rete commerciale e punti di vendita di pri’or­dine. Tuttavia il sindacato aveva già diffidato l’azienda dall’intraprendere delocalizzazioni di siti produttivi in aree extra nazionali. In alcune dichiarazioni del 2005 al direttore di Umbria Reporter, Bru­no Buitoni, pone in tre concause la crisi del gruppo: la mancanza di liquidità, che poteva essere sopperita dal ricorso all’approv­vigionamento di capitale fresco nel mercato della borsa; il litigio costante fra i componenti delle due famiglie Buitoni e Spa­gnoli, e il sindacato perugino con una visione diversa dalla proprietà sulla realtà aziendale. La cosa che mi fa infuriare è che una volta i sindacati erano sempre sul piede di guerra, negli ultimi venti anni con la Nestlè, invece, sono stati quasi sempre zitti.

Già con la caduta di Paolo Buitoni, il destino della IBP era segnato. Tanto più che l’impren­ditoria umbra non fu all’altezza di assumersi solidali responsabilità verso il gruppo, magari rilevandone quote azionarie e capacità/opportunità d’impresa. Ed il risultato è stato che nel corso di pochi anni, Bruno Buitoni vendette l’in­tero assett aziendale, che non era solo edifici, impianti di produzione e forza lavoro, ma anche conoscenza, tecnologia, know how, immagine di marchi, penetrazione commerciale. La crisi IBP era lo specchio della crisi dell’Italia e della sua economia depressa da ben due shock petroliferi. Ancora una volta il mondo arabo, ci spingeva nell’ango­lo dell’inflazione da costi, con le drammatiche ripercussioni sul potere d’acquisito dei salari in un contesto sempre più pressante.

La situazione complessiva, molto difficile, portò alla cessione di Buitoni e Perugina a De Benedetti piuttosto che cederla alla francese Danone. Riportava Repubbli­ca del 2 febbraio 1985: “Innanzitutto si evita che una fra le più qualificate società presenti nel listino azionario italiano finisca sotto il controllo straniero, come accaduto a molte altre medie società farmaceutiche italiane. Si evita poi che nel settore alimentare italiano penetri un gruppo aggressivo ed in espansione come quello francese, che tanti problemi poteva creare anche alle altre aziende alimentari italiane”. Anch’io, ormai fuori dall’ IBP, scrissi un editoriale su La Nazione/Umbria sostenendo una fusione per incorporazione di SME in IBP, con Perugia baricentro del secondo complesso agroalimentare europeo. De Benedetti stava trattando nel febbraio del 1985 nello stesso momento su due tavoli: quello della IBP e quello dell’IRI, con Romano Prodi. Ma quando Craxi intervenne per evitare che l’intra­prendente personaggio acquistasse troppo potere, saltò il banco. Una ad una, le aziende della SME furono messe sul mercato e vendute. Dopo solo tre anni, nel 1988 De Benedetti vendette tutte le attività del gruppo alla Nestlè. Oggi il fenomeno della contrazione delle quote di mercato dei prodotti Perugina – Buitoni, provocato dallo “spezzatino” dei marchi e tecnologie vendute è sotto gli occhi di tutti. Basta leggere i listini di vendita delle due aziende, nel confronto con gli anni settanta per rendersene conto

Appare a tutti evidente, ancor oggi, come questa grande multinazionale alimentare svizzera non abbia compreso come andava gestito il marketing della gamma Buitoni che negli anni settanta era market leader nelle fette biscottate, seconda nel mercato della pasta di semola dopo Baril­la, e nel mercato dei prodotti per l’infanzia, con il marchio Nipiol, dopo Plasmon. Mentre tecnologie, know how di packaging e confezioni, capilla­rità nella gestione dei clienti del marchio Perugina sono state svilite da una presunzione svizzera di standardizzazione, che evidentemente ha nuociuto grandemente ai livelli occupazionali, raggiunti con quella gamma di pro­dotti che man mano o sono stati tolti dal listino o sono stati esternalizzati nella produzione ad altre aziende concorrenti e che il sindacato non ha saputo difen­dere. Negli anni ’71-‘78 sulle vicende della IBP una rivista bimestrale, vicini a­gli ambienti della sinistra, Cronache Umbre, in più di un numero si cimentò in dissertazioni, inchieste, interviste per meglio capire quali fossero le prospettive del gruppo, una volta trasformatosi in IBP. Lo stesso presidente della Regione di allora, Pietro Conti si pose una serie di interrogativi, osservando le incertezze in materia di relazioni industriali. Altri personaggi elaborarono complesse valutazioni che già allora apparivano comunque sopra le righe. La verità è che i politici locali di allora, sia di sinistra – Pci, Psi e deriva­zioni – sia della Dc, cercavano di assumere una veste di interlocutori privilegia­ti verso la proprietà, divisa in due filoni dei Buitoni ed altrettanti della famiglia Spagnoli.

La proprietà rimase unita solo nel momento in cui venne dato mandato al giovane Paolo Buitoni, di realizzare la rilevante operazione di integrazione Perugina-Buitoni; poi si disgregò mano a mano che le difficoltà si manifestavano. Molti politici e sindacalisti espressero opinioni sulle politiche di marketing, nel rap­porto prezzi/qualità/presentazione del prodotto cioccolato sul mercato; o su come realizzare la diversificazione della gamma dei numerosi prodotti e tecnologie Buitoni/Perugina nei mercati nazionale ed esteri. Il listino prodotti era composto da migliaia di voci, con una diversificazione merceologica che abbracciava tutte le tecnologie agroali­mentari disponibili sul mercato. Nell’intervista sopra citata si dice ancora: “Individua­re subito proposte di ristrutturazione della gamma merceologica degli at­tuali impianti della Perugina: prodotti cioè che siano per un mercato reale e a prezzi giusti, accessibili alla grande massa”.

La realtà era invece una manodopera esuberante, rispetto alla capacità di assorbimento del mercato. Ricordo che quando fummo convocati, come consiglio di fabbrica, dalla direzione delle relazioni industriali e ci venne comunicata l’intenzione di spostare la manodopera esuberante, rispetto alla caduta sensibile di vendite dei prodotti dolciari di San Sisto, nel settore tessile-abbigliamento, ci furono dubbi e incertezze. Si trattava di un progetto di riconversione industriale di manodopera femminile ad­detta al confezionamento delle uova pasquali e al packaging cioccolatini, e pertanto con expertise di manualità interessante in un settore, come quel­lo indicato, nel quale Perugia poteva vantare già d’allora la storia di un distretto industriale come quello della maglieria, con tutte le implicazioni positive del sistema moda che esso compor­tava: innovazione, attività indotte, potenziale di mercato, propensione all’export, etc. Ma questa proposta, per diversi motivi, non andò avanti.

Della vicenda IBP se ne potrebbe fare un case history per la formazio­ne di marketing manager del futuro. Almeno tre le morali di conduzione imprenditoriale e manageriale alle quali attingere. La prima vale per Pa­olo Buitoni: una strategia aziendale, benché geniale in teoria, va saputa adattare al mercato ed alle sue congiunture. La seconda per il sindacato: la pressione rivendicativa salariale e occupazionale non è la soluzione per “tutte le stagioni”. A volte è più utile la partecipazione nella cogestione dell’azienda. La terza per la categoria degli imprenditori che confondono l’azienda come una proprietà esclusiva, soggetta quindi al variare delle generazioni. Al contrario la vita aziendale deve essere ben più lunga di quella imprenditoriale.

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