Piazza Birago, l'arrivo del corteo contro la violenza di genere del 25 novembre 2023
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Il quartiere della metapolitica

 

Tra via Birago e via del Lavoro, a Perugia, c’è un pezzo di città dove si mescolano un sacco di cose. E dove se anche le cose non vanno tutte bene, vanno comunque meglio di come potrebbero andare. Succede perché ci sono realtà, soggetti, individui che fanno metapolitica, e che forse proprio per questo dalla politica istituzionale si tengono a distanza per affondare la loro azione nel reale.

Scendendo da via Fonti coperte, se si svolta a destra e si imbocca l’ultima traversa disponibile prima di entrare nel frullatore di veicoli che è via Campo di Marte, si accede in una sorta di mondo parallelo. Via della Concordia, si chiama. Insieme al prolungamento di via del Lavoro e alla parallela via Birago disposta a nord disegna una sorta di rettangolo che delimita un pezzo di città in cui le trasformazioni in senso metropolitano subite da Perugia negli ultimi trenta-quarant’anni convivono con la città che fu. Lo presidiano due scuole: a sud-ovest il liceo Assunta Pieralli, e a nord-est il liceo artistico Bernardino di Betto, una sorta di spartiacque, quest’ultimo, con la zona di Fontivegge, l’area della città dove gli aspetti più deteriori del processo di metropolizzazione di Perugia mostrano invece il morso più profondo. Un’altra scuola, la primaria Giovanni Cena, è nel cuore di questo quadrilatero sghembo.

Qui ci si può imbattere in due dei rari esempi di esercizi sopravvissuti all’imperio degli ipermercati e dei centri commerciali: un negozio specializzato in bomboniere e uno in elettrodomestici. Entrambi svincolati dai brand sovranazionali che puntellano le città. Se si percorre qualche altro centinaio di metri, dopo essere entrati in via del Lavoro, si incrocia anche “Cibarie e altro”, un piccolo negozio di generi alimentari per capire la natura del quale – se il nome non avesse ancora detto abbastanza della sua originalità – basta buttare uno sguardo dentro, al grande tavolo di legno che occupa il centro della stanza e che fa da appoggio per aperitivi a base di vino e spuntini. «Penso che la sopravvivenza di questo tipo di attività sia dovuta alla camminabilità, cioè alla possibilità che questo quartiere ti dà di spostarti a piedi», dice Maurizio Zara, presidente di Legambiente Umbria e da tre anni residente in via Birago.

Forse è proprio dai piedi che occorre partire per tentare di capire la natura in controtendenza di questo angolo di Perugia. O meglio, il punto di partenza potrebbe essere la riflessione sulle possibilità che si aprono quando ci si riesce a liberare dalla corazza delle auto che accompagna la vita quotidiana in città della maggior parte delle persone, contribuendo a renderle monadi. Via Birago è nata negli anni Trenta come espansione verso la piana a sud di una città che non ce la faceva più a rimanere aggrappata al colle su cui è nata. Via del Lavoro è una prosecuzione successiva di questa tendenza. In entrambi i casi l’urbanistica riflette una progettazione risalente a periodi in cui l’auto non era ancora l’ombelico delle città. Ne sono la testimonianza i camminamenti e le numerose scale a cielo aperto che costituiscono una vera e propria rete di collegamento tra le palazzine di quest’area. È forse questo il collante misterioso che tiene insieme le componenti che stanno rigenerando la zona, l’ingrediente che unisce questo quadrilatero mantenendolo quartiere. Un quartiere così appartenuto da chi lo vive, che i ragazzi della 4A LES del liceo Pieralli, lo scorso anno, hanno ritenuto utile descriverlo in un documentario prodotto dal Perso Festival in cui si mescolano le voci di chi in questo posto c’ha vissuto e se n’è andato a quelle di chi invece ha deciso di andarci a vivere in anni recenti. È in quel documentario che si sente dire da don Luca Delunghi che la prima cosa che ha fatto quando la diocesi l’ha trasferito qui, facendolo diventare parroco del quartiere, è stata «vendere il motorino». Perché qui ci si muove a piedi, s’incontra, si parla. Senza corazze, appunto.

In questo quadrilatero è come se il camminare aiuti il funzionamento del reticolo vascolare costituito da vie, stradine e scale di collegamento che irrora di energie l’intero corpo. L’associazione di quartiere Cap 06124, l’apertura di Popup, e il presidio del S.I. Cobas si intersecano con la sponda complice offerta da un prete – don Luca – le cui attività, come quelle delle organizzazioni di vario genere appena nominate, non sono recingibili in una formula. Cap 06124 organizza pranzi e cene di quartiere, tiene le file di un gruppo d’acquisto solidale che il venerdì pomeriggio – giorno di distribuzione della spesa – riempie la piazza di persone e cassette di legno in cui sono contenuti i generi alimentari acquistati da aziende del circondario; e svolge una sorta di attività sindacale per il quartiere nei confronti dell’amministrazione. Popup non è né un bar, né un luogo di ritrovo, né una libreria indipendente, né un soggetto di animazione culturale ma l’insieme di tutte queste cose che lo rende di valore superiore alla somma delle attività che svolge. I Cobas si definiscono «laboratorio politico», ma è un po’ riduttivo per un collettivo di persone che fa sportello sindacale, animazione sociale e ripulisce pure i parchi («Qua sopra – dice Gerry indicando il soppalco all’interno della sede – abbiamo un secchio e una pinza con cui raccogliamo le siringhe in cui ci imbattiamo»).

Tutti fanno un po’ di più di quello che le definizioni statiche porterebbero a pensare, dentro questo rettangolo immaginario. La storia del doposcuola popolare ne è una metafora. Venti ragazzini che per due volte alla settimana si incontrano, fanno compiti e altre attività grazie a volontari che si prestano a fare educazione. Il tutto a costo zero per le famiglie. Le attività sono ospitate nei locali della parrocchia (ecco una delle sponde complici di don Luca) e vi contribuiscono un po’ tutte le realtà del quartiere, anche se la primogenitura è del “laboratorio politico”. Gabriele, Gerry e Francesco me la raccontano così, seduti in circolo sulle sedie di plastica della sede del S.I. Cobas: «Qualche tempo fa ci sono state una serie di azioni ai danni di esercizi commerciali della zona e la prima cosa che ci venne spontaneo fare fu quella di convocare un’assemblea di quartiere», attacca Gabriele, e Francesco incalza: «Non sapevamo bene neanche cosa andare a dire, ci sembrava solo opportuno cercare di tirare fuori le persone dalle case per portarle a riflettere insieme su quanto stava accadendo, evitando che la cosa si sedimentasse sulla solitudine». È successo che a quella assemblea ne sono seguite altre. «È lì – aggiunge Gerry – che sono emersi bisogni che poco avevano a che fare con la criminalità da cui eravamo partiti». Ne è seguita una inchiesta sociale. «Questa cosa ci ha portato ad avere una mappatura socio-anagrafica di cosa fosse il quartiere, ed è da lì che abbiamo deciso di aprire il doposcuola popolare», conclude Gabriele. Si tratta di un’esigenza – come tante altre – che non solo le istituzioni non soddisfano, ma che neanche colgono.

Il doposcuola è cresciuto, ed è diventato il crocevia dei genitori che ci portano i figli e le figlie e che hanno trovato anche un luogo in cui poter esprimere altre esigenze. Il doposcuola oltre il doposcuola, insomma. Per questo l’esperienza è una sorta di paradigma per capire come da queste parti le cose lievitano e assumono forme anche inaspettate rispetto alla partenza. Come Popup. Chi se lo sarebbe mai aspettato che quei locali di proprietà dell’Ater, chiusi dal 2014 e riaperti in piena pandemia, potessero diventare la cornice all’interno e intorno alla quale far crescere un’esperienza così caleidoscopica che è perfino difficile da definire? Quando dico, scherzando, a Filippo «dai che ormai siete diventati cool», lui si schermisce. «Ma guarda che non ci siamo mica montati la testa!». Infatti. Popup è un successo genuino. Anzi, ha successo proprio perché asseconda al meglio lo spirito originario col quale è stato pensato: un crocevia dove si mescolano cose diversissime e da dove nascono cose. Qui lavorano Cap 06124, Settepiani, Mente Glocale, le tre associazioni che ne sono il nerbo. Ma qui viene ospitato chiunque lo voglia. Da qui il doposcuola è a portata di vista, appena al di là della piazza. È una sorta di gomitolo, questo quartiere, in cui le storie individuali e collettive si incrociano e pur mantenendo il loro carattere sanno mescolarsi.

Va tutto bene, dunque? No, il paradiso in terra è una cosa solo immaginabile. «Avremmo bisogno di qualche volontario in più, e più giovane, per fornire un’educazione più vicina ai ragazzi che seguiamo», mi dice Marisa. La incontro a Popup, lei fa parte di Cap 06124, ma è una delle animatrici della struttura che è nata da un’inchiesta del «laboratorio politico» dei S.I. Cobas, a conferma della positiva mescolanza che è il di più in questo rettangolo. Va tutto bene, allora? Non proprio. «All’inizio – spiega Filippo – qui a Popup venivano i nostri amici, poi è cominciato a venire anche un pezzo di quartiere. Quindi, bene. Però c’è un nucleo di residenti che è rimasto animato da indifferenza, e che anzi forse preferirebbe che non ci fossimo, così ci sarebbero più posti auto liberi e la zona sarebbe più tranquilla. Non scherzo, c’è chi ce l’ha detto». Va tutto bene, quindi? «Devo dirti la verità? Lo sforzo che mettiamo in campo tra sportello sindacale, azione diretta nel quartiere, doposcuola e altro è grande – confida Gerry –. Qui continuano a esserci problemi di spaccio e la eterogeneità delle provenienze etniche, con un blocco di residenti di origine sudamericana e un altro di provenienza dall’Europa dell’Est, non aiuta gli interventi che facciamo né la comunicazione, a volte. E si tratta di un pezzo di città di fatto lasciato a se stesso da anni, dove gli interventi pubblici si limitano a un po’ di bitume in prossimità delle scadenze elettorali». Considerazione che rende ancora più prezioso, fecondo e potenzialmente trasformativo l’intervento a più facce che si è tentato di descrivere in queste righe portato avanti da soggetti che potremmo definire metapolitici; cioè che fanno politica, ma la fanno nel senso più autentico di azione sul reale e al tempo stesso si tengono lontano dalla politica istituzionale in senso stretto, che è diventata una continua piroetta su se stessa. Sono soggetti che operano, a prescindere da – e a volte anche contro – istituzioni che non sanno più cosa sono le città, i loro pezzi. Che le lasciano azzannare, le città, dalla grande distribuzione e dal partito del cemento che ne modificano forma e sostanza. Qui, dentro questo dedalo – e forse proprio perché dedalo – scorrono le vene di una città diversa. E anche se non va tutto bene, qualcosa riesce ad andare meglio di come andava.

Nella foto, piazza Birago lo scorso 25 novembre, punto d’arrivo della manifestazione contro la violenza di genere (immagine tratta dalla pagina facebook di Popup)
L’articolo è stato pubblicato originariamente nel mensile micropolis, uscito allegato a il manifesto del 6 dicembre 2023

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