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Cortellesi e Loach contro la legge del più forte

 

Quando la statistica evidenzia il macabro ritmo del metronomo delle morti innocenti, solitamente un’ondata di sdegno percorre le distratte e sempre in altro affaccendate coscienze dell’occidente civilizzato. Quando le vittime, oltre alla mancanza di colpe, hanno anche l’innocenza dell’età e l’asimmetria fisica delle forze, lo sdegno, seppur con le dovute eccezioni e le immancabili differenze, tende a riversarsi in timido moto di protesta più o meno organizzato.

Il freddo dei numeri in questi giorni ci ha sommessamente ricordato, per bocca del segretario dell’Onu, come a Gaza ogni dieci minuti la democratica risposta dell’esercito israeliano all’ignobile mattanza dei miliziani di Hamas abbia garantito la morte di un bambino, e allo stesso tempo, con decisamente minor tenuità, sulla scia dell’incredulità riprodotta a reti unificate dal triste epilogo della vicenda dei due ragazzi veneziani, come in Italia ogni 72 ore nel corrente anno un’inadeguata mano maschile abbia messo fine alla vita di una donna. Molto probabilmente i bambini della striscia di Gaza, vittime della guerra degli adulti, hanno creato un’indignazione “soffocata” sia per la lontananza geografica – sono stranieri prima di essere bambini – sia per l’adesione teocratica del mondo occidentale alle ragioni di Israele – sono figli di Hamas prima di essere bambini – sia per una sorta di abitudine generalizzata all’orrore della guerra – sono inevitabili vittime collaterali prima di essere bambini. Le donne italiane morte ammazzate invece hanno, al numero centotre, provocato uno scossone emotivo ben più rimarcato, per quanto sempre e comunque insufficiente, nel Belpaese. Vuoi per la giovane età degli ultimi protagonisti (Filippo e Giulia), vuoi per un’impotenza sempre più intollerabile, che affonda le proprie radici in un retaggio così arcaico da risultare preistorico (il mito della donna come costola dell’uomo), vuoi perché più il fatto che accade è vicino a noi (non certo per senso patriottico) più ci tocca, sicuramente per una copertura tambureggiante del sistema mediatico.

Lungi da me proporre la classifica del dolore proporzionato allo sdegno e quella dell’indignazione legata allo scempio, l’ultima cosa da fare è mettere in contrapposizione l’innocenza dei bambini palestinesi con l’indifeso delle donne italiane, quello che mi preme invece è l’esatto contrario, tenere insieme le donne e i bambini dell’intero mondo, al di là dell’ipocrisia ristretta dei confini, avere la stessa identica indignazione e lo stesso assoluto rifiuto verso la volontà di sopraffazione tipica tanto della guerra, quanto del patriarcato. Abbiamo bisogno di restare umani, di provare disgusto di fronte all’orrore, di “esercitare” mobilitazione partecipata di fronte all’ineluttabilità della legge del più forte.

Lasciando il freddo statistico della morte tradotta in tempo di vita provo a tuffarmi, con un triplo salto carpiato che rischia volutamente l’ignobile targa dell’irriverenza e dell’inopportunità, nel buio catartico della sala del cinema, mettendo sotto l’occhio di bue due film così lontani e così vicini, da risultare un unico inno alla resistenza umana. Un regista affermato e forse unico nella capacità di rivendicare il potenziale umano degli ultimi attraverso la cinepresa, e una regista che, alla sua prima esperienza, riesce a proporre una donna, alle prese con la violenza ereditaria di uno storico patriarcato, che non si limita a osservare il corso della storia, ma che con celata determinazione – così celata da risultare sottomissione agli occhi dei più – vuole condizionarlo attraverso la partecipazione in prima persona. Ken Loach e Paola Cortellesi, riescono a restituirci, riescono a farci riscoprire la stessa indignazione contro il sopruso, la stessa volontà di reazione collettiva contro la legge del più forte, la stessa urgente necessità di mutualità dei più nei confronti di un ordine delle cose che il retaggio culturale, che si fa sistema sociale, pretende di rendere indiscutibile. Far trovare forza e voce alle vittime designate; agitare la complicità dei presunti deboli come detonatore in grado di scardinare la presunzione dei soliti forti; creare un filo rosso in grado di unire il dopoguerra della capitale italiana con la più recente contemporaneità della provincia residuale britannica; combattere le convenzioni dell’apparenza e delle tradizioni; rifiutare il ruolo assegnato dalla legge non scritta della dovuta subalternità; stare all’interno delle contraddizioni provando a non cedere di fronte ad abusi e imprevisti; cercare di non arrendersi al principio gravitazionale che prevede accanimento verso il basso e sussiego verso l’alto a prescindere dalle responsabilità. Riescono a farlo partendo da esigenze personali differenti, da storie di vita raccontate unite dall’ingombrante presenza sullo sfondo della guerra e soprattutto dalla pretesa di fare luce laddove le miserie umane pretenderebbero buio. Lo fanno con il proprio linguaggio, Loach con la capacità di far testimoniare, attraverso l’asciutto dei dialoghi, il patrimonio collettivo, la concreta solidarietà e non una estemporanea beneficenza – per dirla con le parole dei suoi personaggi – che troppo spesso viene lasciato in un angolo sostituito dal dominio dei rapporti di forza che indica la strada maestra dell’indifferenza e del “farsi i fatti propri” come regola di vita; Cortellesi con l’ecletticità poliedrica del suo fare “spettacolo”, con la sagacia di chi sa creare “sorpresa significativa” anche nelle scene di brutale banalità, sublime a tal proposito l’effetto a scomparsa immediata della violenza sistematica subita, con, ultimo ma non ultimo, la complicità di un cast che alla professionalità unisce l’amicizia nella quotidianità.

A differenza dei bambini di Gaza e delle donne italiane, diventat* misura di tempo macabro e somma algebrica di cinismo e indifferenza di un mondo che, nella sua irrefrenabile competitività, finisce con il travolgere e fagocitare ogni sentimento, le protagoniste e i protagonisti dei film di Loach e Cortellesi aprono squarci di concreta speranza, restituiscono a noi spettatori la possibilità di uscire dal fatuo oscuro del cinema carichi di determinazione e senso della vita. Sta a noi riportare nella biografia di ciascuno l’amorevole determinazione di Delia e la “faticosa” mutualità di T.J. Ballantyne. Lo dobbiamo a chi non può più, a chi ha visto la propria vita declinarsi in tempo di morte, all’orrore statistico che lega i dieci minuti infantili della striscia di Gaza con le 72 ore femminili del 2023 italiano. In fondo lo dobbiamo a noi stessi, consapevoli che: c’è sempre domani alla vecchia quercia, come in ogni altra parte di mondo, senza mai dimenticare di vivere pienamente l’oggi. Se si mangia insieme si rimane uniti (e soprattutto umani).

Foto dal profilo Flickr di Lin Mei

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