Punti interrogativi
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Le domande dell’al di qua

 

Un mezzo come Cronache umbre non può eludere la domanda che molte delle persone che si trovano al di qua della linea della destra al governo si stanno ponendo in queste ore in Umbria. Che fare, davanti al ballottaggio del 28 maggio tra la coalizione melonian-salviniana di Orlando Masselli e l’opzione cesaristica di Stefano Bandecchi? Non può farlo perché, con nostra sorpresa, abbiamo registrato diverse reazioni all’articolo con cui Simone Gobbi Sabini, per primo, ha messo il dito nella piaga. Reazioni che ci portano a constatare come – pur tenendosi lontana dalla cronaca politica in senso stretto – questa rivista on line sia diventata un piccolo punto di riferimento per chi sta al di qua, appunto. Non può perché quello che è successo a Terni ha una valenza regionale, sia per l’importanza della città che per la portata dell’accaduto, e quella domanda infatti se la stanno ponendo in parecchi anche al di fuori della Conca.

Conviene però subito ripulire il campo da un equivoco: secondo noi non c’è una linea da seguire. Non c’è perché, semplicemente, non esiste nella realtà; perché non c’è nessuno in grado di fornirla. Esistono diverse sensibilità, ognuna con le sue ragioni, e l’unica postura da evitare è quella della supponenza nei confronti di chi si trova a pensarla diversamente. Basta fare un giro d’orizzonte rapido anche solo tra le rispettive conoscenze che ognuno di noi coltiva per constatare che, tra quelli e quelle al di qua, c’è chi ritiene opportuno votare Masselli perché il conflitto d’interessi e la persona di Bandecchi, nonché l’estemporaneità della sua coalizione, rappresenterebbero un rischio che la città di Terni non può permettersi di correre. C’è all’opposto chi ritiene che piuttosto che consolidare il potere della destra che ha già in mano le redini dei governi nazionale e regionale e di molti altri centri dell’Umbria, convenga andare a votare per Bandecchi, se non addirittura stringerci un’alleanza, per salvaguardare un minimo di rappresentanza istituzionale e tentare di condizionare il potere dell’uomo solo al comando. C’è infine chi – la parte forse maggioritaria degli al di qua – considera non commestibili entrambe le candidature e rifiuterà di andare alle urne per il ballottaggio.

Se riuscisse a far dialogare in questo spazio le diverse inclinazioni, questo mezzo di informazione avrebbe già assolto una funzione importante: quella di costringere all’argomentazione razionale e al confronto civile chi in queste ore, con la ferita che brucia, tende più ad attribuire responsabilità che a cercare ragioni. Non si tratta di trovare una sintesi, e quindi una linea che non c’è. Si tratta almeno di cercare di comprendersi. È un invito a prendere la parola, chiunque lo vorrà.

Tutto quello che si è appena detto è quanto di più lontano dall’equidistanza. E nonostante l’autore di quello che state leggendo ricopre anche il ruolo di direttore responsabile di questa testata, questa è un’opinione che non impegna nessuna altra persona se non chi la scrive.

Bene, allora: l’indugiare solo sul momento elettorale, tanto da prendere in considerazione anche l’idea di allearsi con uno dei due diavoli in campo, è uno dei motivi che hanno portato l’al di qua all’inconsistenza istituzionale. Paradossalmente cioè, l’essere arrivati a far coincidere la politica con la sola attività istituzionale ha fagocitato la stessa rappresentanza istituzionale che era/è ormai diventata pressoché fine a se stessa e tende a mettere in campo azioni solo per riprodursi. La politica dell’al di qua è nata dentro al movimento cooperativo che soddisfaceva le esigenze dei subordinati uniti, nei germogli di sindacati e associazioni che tutelavano gli interessi dei senza-potere facendo leva sul mutuo aiuto. Solo dopo queste pratiche sono diventate rappresentanza istituzionale, che aveva un senso perché corroborata da persone in carne e ossa che avevano preso coscienza di sé e agivano di conseguenza. Col tempo però, ci si è talmente assuefatti alla rappresentanza dentro le istituzioni da non considerare quasi più che le cose vanno fatte per strada, negli uffici, nelle corsie degli ospedali, nelle scuole; e la rappresentanza dentro le istituzioni è diventata un mondo a sé, con logiche tutte sue, incomprensibili ai più; si è essiccata crogiolandosi in un’autoreferenzialità nefasta. Ed è rimasta sola come probabilmente merita di stare.

Evitiamo i manicheismi: non si sta sostenendo che occorra rifiutare la rappresentanza istituzionale per riversarsi solo nel sociale, né si trascura che la sponda istituzionale è importante per affermare pratiche, diritti e avanzamenti. È però forse arrivato il momento che il sociale si riprenda la politica, e la torca a suo vantaggio. In una maniera che probabilmente potrà essere solo inedita.

Tornando a Terni, anche se ci si asterrà continueranno a funzionare i presidi che ci sono già: dalla tenace Casa delle donne al mondo della solidarietà e della cultura altra. Magari ne nasceranno altri. E se ci saranno attacchi (e ci saranno), privati (o quasi) della rappresentanza istituzionale si potrà forse ritrovare il modo di guardare a cosa succede per strada, negli uffici, nelle corsie degli ospedali, nelle scuole. Per poi magari, in futuro, riportare un po’ di quelle essenze dentro i palazzi. Allora sì, tornerebbe ad avere un senso disporre di una rappresentanza istituzionale.

PS: costringere chi lo vorrà a eleggere un sindaco di enorme minoranza da scegliere tra la destra-destra e il nuovo Cesare potrebbe avere un senso anche istituzionale, nonostante i seggi si riempiano comunque, a prescindere dal numero di astenuti.

Foto di Daniel Roberts da pixabay.com

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