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Sanità, la Regione abdica di fronte a Università e privati

 

Il memorandum iniziale

L’amministrazione regionale fin dal suo insediamento ha avviato un rapporto con l’Università attraverso la sottoscrizione di un “Memorandum d’intesa per la salute”, siglato il 22 gennaio 2020 dalla presidente Donatella Tesei e dal rettore Maurizio Oliviero. In quel documento stati enunciati grandi obiettivi strategici con toni enfatici ponendo alla base dell’impegno futuro alcuni dati di fatto fondamentali, come il patrimonio di qualità delle prestazioni sanitarie erogate in Umbria, il cui valore è dimostrato dal fatto che la Regione è stata fino a pochissimi anni fa stabilmente considerata come un punto di riferimento virtuoso per la sanità nazionale, e al suo interno l’Azienda ospedaliera di Terni è stata inserita nel benchmark delle più virtuose. Il documento si concludeva con l’impegno delle parti ad attivare un «tavolo tecnico volto a valutare e opportunamente ridisegnare l’assetto organizzativo dell’assistenza sanitaria nell’intera Regione». Le proposte scaturite, secondo una calendarizzazione prevista dallo stesso Memorandum, avrebbero dovuto essere sottoposte ad una «approfondita discussione all’interno delle rispettive Istituzioni» nonché a una «successiva ampia partecipazione alle parti sociali, alle altre Istituzioni interessate e alla cittadinanza» prima che si procedesse alla «approvazione finale dei rispettivi organi istituzionali». In coda al Memorandum, Regione e Università convenivano di mantenere in regime commissariale la gestione di tutte e quattro le Aziende sanitarie (cioè le due Asl e le aziende ospedaliere di Perugia e Terni). Una scelta quest’ultima che non appariva coerente con lo spirito di sviluppo annunciato dal Memorandum, poiché lasciare la gestione di un intero sistema complesso come il Servizio sanitario regionale (Ssr) in uno stato di sostanziale precarietà sicuramente non favoriva una programmazione coerente con gli obiettivi annunciati. Lasciare intatto lo status quo d’altro canto, metteva al riparo Regione e Università da eventuali scelte organizzative aziendali che potessero risultare in contrasto con le decisioni future; o forse, più prosaicamente, in contrasto con i futuri equilibri di potere che già si ipotizzavano per le aziende sanitarie, in particolare quelle ospedaliere.

La proposta di Piano Sanitario Regionale

Si arriva così al novembre 2021, quando la Giunta regionale pre-adotta una proposta di nuovo Piano sanitario regionale (Psr) che nella fase di partecipazione è stata oggetto di critiche diffuse per la sostanziale vacuità delle scelte e per la scarsità di contenuti esplicitati. Tra i soggetti che hanno manifestato le osservazioni più critiche, sorprendentemente, c’è stata proprio l’Università che con la Regione aveva invece firmato qualche mese prima il Memorandum di cui si è appena detto. Con un parere formale espresso attraverso il Decreto rettorale del 18 gennaio 2022 (consultabile seguendo questo link) l’Ateneo ha preso anni luce di distanza, tanto che il suo parere si conclude con la richiesta di «una sostanziale revisione del Piano sanitario regionale». In particolare l’Università rimarca l’assenza di «esponenti del mondo universitario» nella cabina di regia prevista per il governo generale dell’attività sanitaria, sottolinea poi che nel Piano sono «scarsamente dettagliate le azioni per implementare il piano cronicità», che per quanto riguarda il capitolo della medicina digitale il lavoro risulta «demandato a gruppi di professionisti non definiti e a documenti esterni con taglio burocratico-gestionale e non sanitario». Per quanto riguarda l’assistenza territoriale poi, viene dichiarato che la prevista riduzione dei distretti da 12 a 5 potrebbe portare alla «riduzione del controllo territoriale delle patologie croniche» e «andare in direzione opposta rispetto alla realizzazione di un capillare sistema delle cure primarie». Infine, sulla salute mentale, il parere dell’Università è che essa «con ogni probabilità emergerà come tema da affrontare nel prossimo futuro, ma è scarsamente considerata nella bozza di piano sanitario».

Il Protocollo d’intesa tra Regione ed Università: oltre ogni norma

Nell’intervallo di tempo che intercorre tra la preadozione del novembre 2021 e il 1 agosto 2022, quando il Piano sanitario viene adottato definitivamente con deliberazione della Giunta regionale, si assiste però a un altro colpo di scena. Viene infatti sottoscritto e preadottato dalla Giunta regionale nel mese di aprile 2022 un nuovo Protocollo d’intesa tra Regione e Università per disciplinare l’utilizzo dei posti letto delle due aziende ospedaliera umbre, con la contestuale loro conversione ad Aziende ospedaliere universitarie (Aou). Quindi in uno strumento concepito per l’integrazione delle finalità formative e di ricerca tipiche dell’Università con quelle assistenziali tipiche della Regione, viene realizzata una operazione di programmazione sanitaria che riguarda ben 1.300 posti letto della rete ospedaliera regionale, tra l’altro quelli di maggiore complessità assistenziale; il tutto in disarmonia con il Psr che era stato posto dalla Giunta all’esame del Consiglio regionale. L’audacia della presidente e del rettore è tale da introdurre in maniera pattizia un nuovo modello di gestione aziendale con forme di nuova e vera autonomia giuridica, senza fasi intermedie di transizione e per di più nel contesto di manifesta debolezza programmatoria regionale e nazionale che si è determinato a seguito dello stravolgimento dei servizi sanitari causato dal Covid. L’esito di questa fuga in avanti è il rischio di far precipitare l’integrazione tra Regione e Università in un modello, come vedremo, così complesso e ancora confuso sul piano normativo, che invece di costituire una possibile evoluzione rispetto alle esperienze fatte sino ad oggi con il sistema della Convenzione può tradursi in una rovinosa massimizzazione di tutti i limiti, ingabbiati e ristretti in una nuova rigidità giuridica aziendale.

È vero che in materia di collaborazione e coordinamento tra servizi sanitari regionali e università, la legge che disciplina la materia (il decreto legislativo 517/1999) configura una possibile evoluzione sperimentale del rapporto verso un nuovo modello di Azienda ospedaliera universitaria (Aou) rispetto a quello convenzionale applicato da decenni in tutto il territorio nazionale. Però ci sono dei vincoli da rispettare, che nel percorso intrapreso da Regione e Università sembrano essere travolti. Le linee guida per i protocolli d’intesa tra regioni e università sono fissate dal Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 24 maggio 2001. In quella norma si fa esplicito riferimento a una concertazione tra regioni e università, che deve essere preliminare alla adozione del Psr. In particolare, le regioni devono trasmettere al ministero della Salute, prima della adozione della proposta di Psr, il parere dell’Università sulla proposta stessa. In Umbria tutto ciò non è accaduto in quanto il parere al Ministero è stato chiesto per una bozza di Psr che non recava il parere dell’università. Il parere ministeriale che la Giunta regionale ha allegato alla deliberazione di adozione della proposta di Psr del 1 agosto 2022, infatti, non contiene alcun riferimento all’articolo 1 del Dpcm 24 maggio 2001, ma si riferisce esclusivamente al parere richiesto dall’art 1 c.14 del Decreto legislativo 502/92. In conclusione, si evince che le due istituzioni fondamentali per la programmazione sanitaria regionale e nazionale – Consiglio regionale e ministero della Salute – non sono state messe al corrente dell’esistenza del Protocollo tra presidenza della Regione e Università.

Il panorama italiano dei rapporti regioni-università

Dopo la pubblicazione del decreto 517/99, una indagine del ministero della Sanità sulle convenzioni vigenti tra 24 aziende ospedaliere aventi un rapporto con le università sul territorio nazionale ha rilevato che le intese siglate sono particolarmente generali, senza ricadute immediate del punto di vista delle regole gestionali in merito all’organizzazione e alla vita quotidiana delle aziende ospedaliere. L’indagine ha anche sottolineato la difficoltà dell’università italiana a garantire un turnover del personale docente e a fornire quindi un contributo costante alle attività assistenziali.

La legge che disciplina l’organizzazione del sistema universitario prevedeva che venisse disposto dal Ministero uno schema-tipo di convenzione al quale avrebbero dovuto attenersi le università e le regioni per regolare i rapporti in materia di attività sanitarie svolte per conto del servizio sanitario regionale: esso non è stato mai prodotto perché si richiedeva, con particolare insistenza da parte del ministero dell’Economia, che le università dovessero trasferire unitamente al personale anche le risorse per gestire il medesimo personale. In conclusione l’integrazione tra Sistema sanitario regionale e università, già con il regime convenzionale, si è caratterizzata per un tasso elevato di integrazione per il governo dirigenziale delle aziende e per un tasso molto basso di integrazione sulle procedure gestionali. Insomma: massima attenzione agli equilibri di potere intraziendale e minima attenzione alla comune responsabilità gestionale.

Regioni e università sono istituzioni hanno finalità distinte con norme legislative specifiche ed autonomia: la responsabilità del Servizio sanitario in capo alle regioni riguarda l’assistenza da garantire a tutti i cittadini, quella dell’università è rivolta alla didattica e alla ricerca. Da un trentennio le difficoltà di integrazione si inseriscono in un contesto di sempre più stringenti limiti di spesa che ha provocato un sottofinanziamento del Fondo sanitario nazionale di circa 40 miliardi negli ultimi 10 anni. Se questo modello di Azienda ospedaliera universitaria poi, si propone l’ambizione di essere il massimo dell’integrazione tra assistenza, didattica e ricerca, e al contempo di essere elemento strutturale del servizio sanitario regionale, le difficoltà di gestione rischiano di acuirsi. Non è un caso che l’istituzione delle Aziende ospedaliere universitarie a livello nazionale è marginale rispetto al modello delle Convenzioni, che risulta più flessibile e adattabile, e più rispondente alla variabilità delle situazioni locali.

L’insieme delle esperienze di convenzionamento maturate nel territorio nazionale è molto variegato; sussistono convenzionamenti con le università parziali o relativi ad attività particolari o agli innumerevoli altri corsi decentrati di area sanitaria disseminati in tutto il Paese. Delle 15 sedi esistenti di corsi decentrati in Italia, tredici sono configurate in forma di corso di laurea autonomo e solo due hanno una configurazione da meri corsi decentrati, tra cui Terni. In Italia sono attualmente attivi oltre 80 corsi di laurea di medicina e chirurgia. Rispetto a un quadro nazionale molto variegato, mai però – tranne in Umbria – è stata avanzata l’ipotesi della incorporazione aziendale della sede decentrata. Delle 15 sedi decentrate, sono state finora trasformate in Aziende ospedaliere universitarie soltanto la Sant’Andrea di Roma e il San Luigi Gonzaga a Torino, che non sono comunque sedi di semplici corsi decentrati come Terni. La stragrande maggioranza dei rapporti è retta da convenzioni, figuriamoci tra due sedi distanti quasi 90 chilometri.

Il rapporto con Terni

L’esperienza di Terni venne avviata intorno alla metà degli anni ’70 dopo l’apertura del nuovo ospedale. Va riconosciuto all’Università un grande contributo per la crescita del nosocomio del capoluogo dell’Umbria del sud. Vennero inserite figure professionali di grande spessore per la didattica, la ricerca e soprattutto l’assistenza, che hanno consentito la crescita di un ospedale multispecialistico di grande rilievo tra le città dell’Italia centrale. Furono introdotti servizi innovativi come l’oncologia, la chirurgia vascolare, le patologie del metabolismo, l’endocrinologia, la pneumologia ospedaliera. Fu importante anche il contributo dei servizi territoriali con le diverse esperienze avanzate e sperimentali condotte all’epoca in medicina del lavoro e nei servizi di base. Importante anche il contributo sul versante della prevenzione primaria, con gli studi epidemiologici svolti dalla cattedra di Igiene e medicina preventiva nell’ambito del Progetto ambiente della conca ternana. A questo importante contributo ha fatto comunque eco una parallela crescita della componente ospedaliera, attraverso concorsi pubblici nazionali, che hanno permesso, con eccellenti professionisti, di innestare alte specialità come la neurochirurgia e la cardiochirurgia. Il completamento dei corsi con il secondo triennio richiese molto tempo e con diversi tentennamenti.

Gli effetti problematici della proposta umbra

Il protocollo proposto in Umbria che punta alla creazione di due aziende ospedaliere universitarie a Perugia e Terni, presenta scostamenti piuttosto vistosi rispetto alla normativa nazionale. La natura pattizia del protocollo va a porsi impropriamente al di sopra della legislazione vigente. Gli scostamenti non sono su questioni di dettaglio, ma sono in grado di produrre effetti sulla responsabilità nella gestione degli incarichi e sugli oneri finanziari responsabilità del bilancio. Si vedano ad esempio i meccanismi di istituzione delle Aou e la contestuale revoca delle Aziende ospedaliere di alta specialità, come pure la clausola risolutiva del Protocollo, che prevede che con un semplice preavviso di 12 mesi di una delle parti, si possa pervenire all’annullamento dell’intesa con conseguente scioglimento delle due Aou. Questo avverrebbe, si badi, dopo aver dichiarato soppresse le due Aziende ad alta specialità. Per quanto attiene a queste osservazioni il Protocollo dovrebbe essere sottoposto all’attenzione dei ministeri competenti in materia di salute e università in modo da prevenire sgradevoli contenziosi futuri.

La gestione proposta per le future aziende ospedaliere universitarie non è equa, nel senso che gli eventuali disavanzi, anche se generati da strutture a direzione universitaria, andranno impropriamente a ricadere esclusivamente sulla contabilità regionale. Questo significa per i cittadini umbri che ai possibili disavanzi che si dovessero creare in futuro si dovrebbe porre rimedio con addizionali Irpef, cioè con aumento della tassazione individuale. Si evidenziano inoltre possibili scenari di contenziosi in quanto una amministrazione governativa come l’università andrebbe impropriamente a far ricadere i propri costi di funzionamento su una specifica regione.

Il problema degli incarichi

Il conferimento degli incarichi è uno dei settori più delicati di tutto il protocollo in quanto viene riconosciuta al rettore una potenzialità da monarca assoluto e affrancato da ogni responsabilità. Il risultato finale di questo accordo è che la maggior parte delle strutture complesse delle due aziende, verrebbero assegnate con una modalità del tutto privatistica, senza avere una seria procedura comparativa concorsuale aperta a livello nazionale, come accade invece per i concorsi ospedalieri. È evidente che se le due aziende ospedaliere – che rappresentano il 50 per cento dell’offerta ospedaliera regionale e ne sono la più alta espressione per la complessità dei trattamenti – non operano in trasparenza il reclutamento dei responsabili apicali, non sarà possibile invertire il trend ormai consolidatosi da anni di forte riduzione della competitività del Servizio sanitario regionale umbro in termini di assistenza ospedaliera. Dal 2013 è in corso una riduzione di attività di ricovero soprattutto a carico dell’azienda ospedaliera di Perugia che ha prodotto riflessi negativi sulla mobilità passiva della Asl 1. Questo fenomeno non si è invece registrato nel sud dell’Umbria. Poiché le strutture complesse a direzione universitaria dispongono del 70 per cento dei posti letto nell’ospedale di Perugia e di circa il 30 per cento in quello di Terni, si può ipotizzare che la maggiore presenza universitaria non contribuisca ad aumentare l’attrattività dell’azienda ospedaliera perugina.

L’affermazione che lo scopo del protocollo è l’innalzamento della qualità assistenziale del Servizio sanitario regionale, come sostiene la presidente Tesei, è dunque infondata in quanto non sono all’orizzonte nuove acquisizioni da parte dell’Università di figure professionali di prestigio, e soprattutto l’Università ha già saturato tutti i posti possibili cioè tutti i docenti ordinari e associati sono già convenzionati e ampiamente operativi nel Servizio sanitario regionale. Quindi non si capisce da dove potrà venire nuova linfa per fare il salto qualitativo annunciato. Se non si faranno i concorsi su base nazionale, riservati agli ospedalieri, è difficile ipotizzare che il servizio sanitario regionale potrà vantare gli incrementi di qualità annunciati.

La questione delle retribuzioni

Il trattamento economico del personale docente è un’altra criticità, infatti, il personale docente universitario percepisce dallo stato una retribuzione inferiore rispetto al personale medico ospedaliero. Su questo argomento è da segnalare il tentativo di attribuire un trattamento economico privilegiato che il protocollo va a estendere indiscriminatamente dai ruoli a tutto il personale universitario, tanto da inserire nell’articolo 24 del protocollo la necessità del varo di una legge regionale ad hoc per coprire la spesa aggiuntiva. Cioè: con un atto amministrativo si va a richiedere un atto legislativo per la sua attuazione, una vera e propria capriola giuridica.

Ospedalieri e universitari

Nel protocollo non è presente alcuna clausola di verifica della qualità per il Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei cittadini. E a questo proposito va ricordato che il decreto 517/99 dà discrezionalità al rettore nella procedura selettiva, ma non esclude quanto stabilito dalla normativa vigente in tema di accreditamento istituzionale. Questa garanzia, dovrebbe essere particolarmente applicata in considerazione della scarsa trasparenza che purtroppo caratterizza il reclutamento del personale presente nel mondo accademico. Ancora più problematico è l’aspetto di rilievo gestionale che viene richiesto a chi si candida a dirigere una struttura complessa. In sintesi ci sarebbe un doppio handicap per l’universitario, abituato a svolgere l’attività in gruppi di ricerca piuttosto ristretti dove le competenze assistenziali come quelle manageriali non sono richieste per gli avanzamenti di carriera. Nel conferimento delle strutture complesse ospedaliere, al contrario, questi aspetti sono ritenuti fondamentali.

L’organigramma del Dipartimento di medicina e l’attribuzione delle strutture complesse attraverso il protocollo sono la trascrizione dell’organigramma del dipartimento di Medicina in ambito aziendale. Questo non sarebbe un grosso problema se la distribuzione dei docenti nei settori medico-scientifici fosse rappresentata in maniera equa e ordinata. In realtà ci troviamo di fronte a una realtà molto disorganizzata che non sembra frutto di una programmazione oculata dal momento che alcuni settori medico-scientifici risultano eccessivamente popolati, ed altri al contrario totalmente scoperti come ad esempio cardiochirurgia, neurochirurgia, pneumologia e fisiatria. Questo aspetto concorre indubbiamente a rendere ancora più improbabile l’incremento di qualità sbandierato, e impoverisce l’offerta didattica complessiva. La tabella evidenzia l’entità della presenza dei medici nelle due aziende per amministrazione di appartenenza a fine 2021.

Come si vede gli ospedalieri rappresentano la maggioranza assoluta, circa il 90 per cento del totale, ma grazie al protocollo Regione-Università vedrebbero fortemente ridotte le loro aspettative di carriera, cioè il raggiungimento della apicalità delle strutture complesse. Va anche detto che gli ospedalieri, sia per questioni di numero che di competenza, sono in grado di garantire il funzionamento delle due aziende anche senza la componente universitaria. Il contrario non sarebbe in alcun modo possibile. Questa è la dimostrazione che l’assistenza può esistere senza anche senza la compresenza della didattica e della ricerca. Al contrario è l’Università a dover ricorrere al servizio ospedaliero pubblico per poter esercitare la propria competenza di insegnamento della medicina. Quindi è l’Università ad avere bisogno della Regione, e non il contrario. Questo è il punto che solleva le maggiori perplessità nel comportamento che la Regione sta tenendo in questa materia.

Il protocollo tratta poco o nulla gli aspetti di come si debba organizzare l’insegnamento della medicina, si vedano ad esempio il caso dei tirocini pre-laurea, mentre è molto accurato nel definire i meccanismi di copertura degli incarichi di maggiore rilevanza, senza concorso, per gratificare il personale docente.

Per l’Azienda di Terni, non ci sono stati tentennamenti nel taglio delle strutture complesse ospedaliere lasciate fino ad oggi scoperte per le quali non esistono candidati dal mondo universitario. Questo è l’esempio di cardiochirurgia, chirurgia maxillo-facciale e chirurgia della mano. Altre strutture complesse rimaste a lungo scoperte ma in cui esiste un universitario papabile vengono invece regolarmente trasformate da ospedaliere a universitarie (ortopedia, diabetologia-endocrinologia, gastroenterologia).

Dove stiamo andando?

I fatti che si sono succeduti nella politica sanitaria regionale evidenziano delle chiare contraddizioni che disvelano il disegno sottostante. Il processo reale è quello di una totale cessione di potere e di risorse da parte del Sistema sanitario regionale all’università, fuori da ogni norma nazionale prescrittiva e d’indirizzo.. Così prende senso il commissariamento aziendale finalizzato, anche a discapito dei servizi sanitari, a garantire la spartizione del potere intraziendale delle apicalità, attraverso li protocollo d’intesa. Il disegno fattuale è di costituire un policlinico universitario con oltre il 50 per cento dei posti letto regionali, in piena autonomia e dentro il sistema regionale sanitario.

Disarmante è la ambigua subalternità politica delle forze politiche regionali, in particolare di opposizione. Le uniche forze sociali che si sono assunte un atto forte di responsabilità sono state Cgil e Uil con lo sciopero del 22 ottobre del 2022 contro il disastro dei servizi sanitari che morde sulla domanda di salute dei cittadini. E qui siamo alla responsabilità delle altre due scelte sbagliate: il commissariamento aziendale e la centralizzazione nelle mani della politica sia degli indirizzi programmatori che della gestione dei servizi che ha provocato un deficit strutturale nella gestione. Dai conti delle aziende sanitarie relativi agli anni 2019-2021, infatti, si evidenzia un aumento dei trasferimenti di 107 milioni con 25 milioni in meno di ricavi, causati dalla diminuita attività, mentre aumenta di 63 milioni la spesa per beni, servizi e personale: meno prestazioni e più spese per i fattori produttivi. La spesa farmaceutica è fuori controllo per decine di milioni, nonostante la centralizzazione gestionale. La spesa per il personale non produce ricadute positive sui servizi, ad esempio sui servizi diagnostici nel quali i cittadini ricorrono ormai sempre di più al privato, fatto che meriterebbe una indagine per capire il concreto utilizzo di tale spesa. Per ammiccare alla sanità privata si conteggiano come necessari 100 posti letto in più nonostante il tasso dei ricoveri umbri non segnali una tale esigenza, e nonostante che negli ultimi dieci anni la popolazione regionale sia diminuita. Nell’area ternana sono quattro anni che da un lato si annuncia l’esigenza di un nuovo ospedale, senza però metterlo mai negli atti di programmazione, e dall’altro si agita un progetto con capitale privato. La realtà è che ripagare il capitale privato investito sarebbe un’operazione insostenibile per il bilancio sanitario. L’attenzione a favorire il privato è talmente ideologica che si preferisce rinunciare alle risorse statali a fondo perduto. E ciò in un contesto ove si assiste da anni a una volontà determinata a ridimensionare l’azienda ospedaliera di Terni attraverso l’assenza di titolari delle apicalità per almeno una decina di strutture complesse.

In conclusione, ci troviamo di fronte ad una politica regionale che alimenta processi di privatizzazione, logiche di potere che snaturano il profilo del Servizio sanitario regionale e mostrano un’inadeguatezza programmatoria e gestionale tali da determinare addirittura una passività. Questo accade in un contesto nazionale in cui il governo Meloni prosegue con il sottofinanziamento del fondo sanitario nazionale e per di più lo fa agitando nel contempo la bandiera dell’autonomia differenziata per le regioni, che significherebbe lo smembramento del sistema nazionale in tanti diversi sistemi regionali con profonde disuguaglianze tra i cittadini delle regioni più ricche e le altre. C’è molto per riflettere e agire rapidamente sia socialmente che politicamente.

Foto tratta dal profilo Flickr del Dipartimento di Protezione civile

2 commenti su “Sanità, la Regione abdica di fronte a Università e privati

  1. Il tema della salvaguardia della Sanità Pubblica (SSN) è centrale e merita un’analisi approfondita ed un’azione politica lucida ed efficace: al grido di dolore deve far seguito la forza di una proposta condivisa. La sanità non si misura in quantità (tutto a tutti, subito ed in loco) ma in qualità ed efficacia di prestazioni necessarie ed utili. Le tasse che paghiamo, salate, generano un fondo cassa importante, che deve essere gestito al meglio. Le Regioni hanno gestioni molto differenziate e così si generano iniquità per i cittadini assistiti che avrebbero diritto ad un trattamento uniforme e di livello

  2. Articolo lungo, dettagliato, forse però il problema non è (solo) quello del rapporto tra Regione ed Università. È in gioco la sopravvivenza del SSN e per salvarlo bisogna ripensarlo: non tutto a tutti qui ed ora ma prestazioni efficaci e necessarie, secondo la EBM. Così i soldi delle nostre tasse potranno continuare a garantire un SSN universalistico e gratuito. La disparità tra Regioni è un altro nodo da sciogliere per evitare diseguaglianze tra cittadini e limitare il fenomeno della migrazione sanitaria.

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