un murales con scritto "peace"
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Il dilemma dei costruttori di pace

 

Questo documento è scaturito al termine di un’assemblea tenuta presso il circolo Arci Subasio convocata da “Foligno in Comune”. Lo pubblichiamo integralmente perché è di rara onestà intellettuale e fotografa in maniera quanto mai precisa il “dilemma” da cui il titolo, oltre alla via stretta in cui potersi muovere.

L’aggressione della Russia all’Ucraina e la guerra che ne è seguita pongono il movimento per la pace di fronte ad una dilemma non nuovo, ma più drammatico ed evidente che in passato: è possibile promuovere la pace senza risultare equidistanti tra l’aggressore e l’aggredito? E, reciprocamente: è possibile prendere parte per l’aggredito senza per questo indossare l’elmetto ed operare in una logica di guerra? Non sono domande retoriche; attraversano le coscienze di tutti noi, mostrano quanto stretta è la porta attraverso cui dovremmo passare e producono discussioni, divisioni, scelte diverse. Alcuni di noi, legittimamente, propongono di stare “fino in fondo” dalla parte dell’Ucraina, e quindi non opporsi all’invio di armi deciso dai governi europei; altri, anch’essi legittimamente, invitano a collocarsi “al di sopra delle parti” per poter meglio svolgere un ruolo di pacificazione. Ma forse una terza via è praticabile: forse quella porta stretta può essere forzata, e “la pace si ottiene con la pace” può non essere solo uno slogan rassicurante, ma un indirizzo politico, una bussola per l’azione.

Perché non possiamo essere equidistanti

È sempre complicato, quando scoppia una guerra, separare con un colpo d’accetta torti e ragioni, ma questa volta è meno difficile che in altre occasioni. Il nazionalismo ucraino può essere altrettanto nefasto di quello russo (e di quello italiano, francese, tedesco, eccetera) e le passate scelte di quel governo, la sua stessa composizione, possono lasciare perplessi, ma questo non cambia di una virgola il fatto che l’Ucraina è stata aggredita e invasa dalla Russia. Quali che siano le ragioni storiche di una parte e dell’altra, la via sciagurata percorsa da Putin non ci lascia altra scelta che solidarizzare con l’Ucraina aggredita, e concretizzare con atti questa solidarietà.

Perché non possiamo sposare la logica delle armi

Per quelli di noi che sono pacifisti integrali il problema non si pone: inviare armi ai combattenti significa alimentare la guerra, quindi non si deve fare, né ora né mai. Altri – parte anche loro del variegato movimento per la pace cui ci sentiamo di appartenere – pensano che ci possono essere eccezioni, situazioni estreme in cui la difesa in armi dei propri diritti e della propria libertà resta l’unica strada percorribile, e si chiedono se questo non sia uno di quei casi estremi. Nonostante tutto, crediamo di no. Crediamo che il massimo che si può ottenere distribuendo armi alla popolazione ucraina non sia, nei tempi brevi, un rovesciamento delle sorti della guerra ma un suo prolungamento: altri scontri, altre vittime, un altro deposito di memorie avvelenate, destinate a fermentare e poi esplodere di nuovo nel tempo più lungo del dopoguerra che verrà, in un Paese in cui nel frattempo si saranno moltiplicate le milizie armate. È già successo altrove (pensiamo all’Afghanistan), può succedere di nuovo. In tanta incertezza di prospettive, le uniche cosa certe – e già vistosamente in atto – sono i profitti dell’industria di guerra e la militarizzazione delle coscienze.

Che cosa possiamo fare, utilmente e in concreto

Rifiutare la logica delle armi non significa limitarsi ad una parola amica, una pacca sulle spalle e, per i credenti, una preghiera. Ci sono cose che si possono fare, livelli di iniziativa che possiamo praticare utilmente senza omologarci alle logiche di guerra e senza risultare inutili o passivi. Il primo è il livello della solidarietà attiva (verso i profughi e verso le popolazioni locali che non lasciano la propria terra); il secondo quella della pressione politica (verso le istituzioni nazionali ed europee); il terzo quello della semina culturale, con l’obiettivo di “disarmare le parole”. Tutte cose che si possono fare anche senza muoversi da qui, dalla nostra pacifica città. Qualcuno, anzi, le sta già facendo.

Solidarietà attiva, organizzata, efficace, trasparente

Le immagini delle popolazioni in fuga dalla guerra sono scolpite nelle nostre coscienze, accompagnano i numeri di stime via via crescenti (oggi 9 marzo si parla di quasi due milioni di profughi), e vanno ad aggiungersi a quelle che abbiamo visto sfilare sui nostri schermi negli ultimi decenni: dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria alla Palestina. Che queste ci colpiscano più di quelle è ingiusto ma inevitabile: quelle città somigliano alle nostre, quei lineamenti e quegli accenti sono entrati nelle nostre case insieme alle persone cui tanti di noi hanno affidato la cura di persone care anziane o malate. Quello che sta attraversando il nostro Paese è un sentimento genuino, che va raccolto, valorizzato e tradotto in atti. Nella nostra città lo stanno già facendo in tanti: la Caritas ha già accolto una quarantina di profughi, Foligno Solidale ha messo a disposizione la propria rete delle iniziative organizzate dalla Protezione Civile di Foligno ed altri soggetti con progetti strutturati nei luoghi del conflitto, preparandosi a sostenere i nuclei di profughi e profughe in arrivo nella nostra Città, la Casa dei popoli, che ha come presidente una giovane donna ucraina, sta collaborando alla raccolta di indumenti, cibo e farmaci promossa dalle donne ucraine presso la chiesa del Suffragio, alcuni rioni hanno messo le proprie reti e strutture a disposizione. L’amministrazione comunale, con la quale tanto spesso ci è capitato (e di nuovo ci capiterà) di polemizzare, ha attivamente collaborato curando e garantendo la spedizione degli aiuti raccolti. E nuove iniziative sono in programma. Dunque i canali ci sono, ciascuno di noi può scegliere quello che sente più vicino e dare concretezza alla solidarietà.

Pressione sulle istituzioni nazionali ed europee

Già il 26 febbraio, insieme ad una ventina tra associazioni, organizzazioni sindacali e soggetti politici della città, siamo scesi in piazza san Domenico rispondendo all’appello della Rete Nazionale Pace e disarmo. Quella manifestazione esprimeva solidarietà all’Ucraina, chiedeva alla Russia un immediato cessate il fuoco e alle istituzioni nazionali ed europee di svolgere un ruolo di neutralità attiva inviando soccorsi alle popolazioni ucraine colpite, aprendo corridoi umanitari per i profughi e proponendo l’Europa come mediatrice e garante di una trattativa. Questa richiesta è stata totalmente ignorata, e la scelta delle istituzioni (Governo, maggioranza parlamentare, Unione europea) è stata di segno opposto: sostegno militare ai combattenti, riarmo, pieno allineamento tra Unione europea, Nato e amministrazione americana. Invece di rimediare ad errori del recente passato, si sono fatti altri passi su una strada che riteniamo sbagliata, contraria agli interessi dell’Europa e distante dalla preoccupazioni di tanta parte della popolazione. Da parte nostra, continueremo a mobilitarci perché queste decisioni siano ripensate e corrette.

Disarmare le parole

La guerra avvelena le coscienze. Già in questi primi giorni abbiamo visto crescere – accanto a un sentimento, tuttora maggioritario, di preoccupazione e sgomento – una rappresentazione del mondo costruita a reti unificate e fatta di buoni e cattivi, di amici e nemici, di “noi” e “loro”. A questa trappola bisogna sfuggire, perché l’escalation delle parole apre la strada all’idea che l’unico modo per fare la pace è vincere la guerra, e prepara giornate ancora più buie di quelle che stiamo vivendo. Bisogna disintossicare il linguaggio, disarmare le parole, prendere parte per l’aggredito senza negare la comune appartenenza di tutti noi al genere umano. Questa lezione risuona spesso nelle parole di papa Francesco, ed è facile per noi umbri riconoscervi l’eco del messaggio, a noi familiare, di Aldo Capitini. Per quanto ci riguarda, faremo di tutto per non tradirlo.

Foto dal profilo Flickr di Steve Rotman

 

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