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“Il mio Pci”, una storia sentimentale collettiva

 

La Fondazione Pietro Conti dedica al partito di cui si celebra il centenario della nascita una trilogia di memorie degli attivisti umbri: “Il mio Pci. Tante storie in una”. Il primo volume, edito da Morlacchi, verrà presentato a Terni venerdì 17 dicembre nel corso di un incontro che si terrà nella sala del Consiglio comunale. Pubblichiamo la prefazione scritta a quattro mani da Fabrizio Bracco e Renzo Patumi, rispettivamente presidente del consiglio di indirizzo e presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione

Con l’avvicinarsi del centenario della sua nascita, hanno ripreso gli studi e le pubblicazioni sul Partito comunista italiano, che da tempo avevano abbandonato gli scaffali dei librai, continuando a destare l’attenzione soltanto di gruppi ristretti e di ambienti accademici. Ma ora che la storia del Pci è definitivamente conclusa e che sono trascorsi tre decenni dal febbraio del 1991, quando il XX Congresso ritenne esaurita la sua esperienza dando vita al Pds, ci si avvicina a questa storia con lenti ben diverse da quelle dei tempi di Ragionieri e di Spriano, con altra sensibilità e altre curiosità. Da Marc Bloch abbiamo appreso che la storia non è maestra di vita, ma che la vita è maestra di storia, e cioè che, con il passare del tempo e il succedersi degli eventi, cambiano i punti di vista e con essi cambiano gli interrogativi che ci poniamo, alla luce del presente del nostro paese e del presente della sinistra.
Alcuni autori, concentrandosi sulle origini del Partito comunista, si sono chiesti se la sua nascita non sia stata una “deviazione della storia”, e come questa deviazione abbia potuto condizionare le vicende successive della sinistra italiana, con le sue sconfitte, i suoi errori e le sue tante difficoltà. Di qui quella sorta di “dannazione”, di cui parla Ezio Mauro, che avrebbe rappresentato uno dei tratti fondamentali della sua storia ed il suo limite principale.
Altri, che della vita del Pci sono stati protagonisti, almeno nella sua fase finale, sono andati alla ricerca, anche criticamente, delle ragioni ideali e del senso delle proprie scelte, delle coerenze (o delle incoerenze) dei propri percorsi (è il caso, con intenti ed esiti opposti, di Piero Fassino e di Luciano Canfora).
Altri ancora, che non sono stati comunisti, si interrogano su come e perché un piccolo partito, nato per fare la rivoluzione (in Italia come in Russia), sia potuto diventare un grande partito di massa, la cui storia si è intrecciata con la storia dell’Italia del secondo Novecento, segnandone in profondità la vita istituzionale, politica, sociale e culturale. Un partito che, sempre più lontano dai partiti della Terza Internazionale, è apparso presto diverso dagli altri partiti comunisti europei, via via sempre più simile (anche se non lo ha mai voluto riconoscere) alle grandi socialdemocrazie, eredi della Seconda Internazionale. Forse proprio per questo, mentre gli altri comunismi europei sono scomparsi o sono diventati poco più di una testimonianza residuale, il Partito comunista italiano ha lasciato tracce preziose e fa ancora discutere.

Locandina di presentazione dell'incontro di Terni sul libro "Il mio Pci"
Questi interrogativi, ancora più incalzanti per i progressisti, appaiono ben sintetizzati da due noti giornalisti, Mario Pendinelli e Marcello Sorgi, nel loro recente volume significativamente intitolato Quando c’erano i comunisti (Venezia, Marsilio, 2020): «Perché nacque e crebbe a dismisura proprio in Italia il più grande partito comunista dell’Occidente? – si domandano – Un partito che riuscì a sopravvivere a eventi epocali: il ventennio fascista, il terrore e lo scandalo dello stalinismo, la rivoluzione ungherese del ’56 e la sanguinosa repressione che ne seguì, mentre continuava a crescere anche negli anni del boom economico e della vorticosa trasformazione della società, condizionando con i suoi lasciti, anche dopo aver cessato di esistere, la politica italiana».
Le risposte le troviamo certamente nella straordinaria e originalissima eredità ideale e culturale di Antonio Gramsci; nel modo in cui Togliatti, che ne aveva compreso subito il valore, al suo rientro in Italia, la utilizzò come base culturale e politica del “partito nuovo”; e, ancora, nella “via italiana al socialismo” di Togliatti e del nuovo gruppo dirigente togliattiano, che seppe interpretare e tradurre in proposta politica e strategica l’idea gramsciana della rivoluzione democratica, fondata sul consenso e l’egemonia.
Qui sta la diversità del Partito comunista italiano da tutti gli altri comunismi e la sua originalità. Giustamente Luciano Canfora ha individuato nella “svolta di Salerno” e nella costruzione del “partito nuovo” la sua vera nascita. Lo stesso cambiamento del nome segnò una cesura netta rispetto al partito, piccolo e settario, nato a Livorno con il nome di Partito comunista d’Italia.
Le scelte e le elaborazioni successive, fino a Berlinguer, sono di tutto ciò un logico e naturale sviluppo. Al di là degli errori, della sue contraddizioni, dei rapporti risolti troppo tardi con l’Urss e il socialismo reale, il ruolo del Partito comunista italiano, ha ricordato Piero Fassino (Dalla rivoluzione alla democrazia, Roma, Donzelli, 2021), è stato fondamentale in tutti i passaggi decisivi della vita italiana, tanto da divenire nel suo lungo cammino un cardine della nuova Italia repubblicana, protagonista della sua crescita civile e democratica. Non a caso Andrea Romano, ispirandosi alle considerazioni di Togliatti, riprese più volte nei passaggi cruciali dell’ultimo decennio del secolo scorso da Alfredo Reichlin, sulla funzione nazionale del Pci, ha potuto intitolare il suo libro su “cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano” Il partito della nazione (Roma, Paesi Edizioni, 2020). Il partito comunista, infatti, ha contribuito per Romano, non certo da solo, a tenere unito un paese, pieno di problemi irrisolti che venivano da lontano, tradizionalmente segnato da pulsioni disgregatrici e frantumato nel suo tessuto politico e sociale.
Il Pci, a differenza di altri partiti comunisti e di sinistra, non è mai stato un partito testimonianza, autoreferenziale, chiuso e minoritario, ma una forza nazionale, aperta, in sintonia con la società, capace di raccordare i bisogni della classe operaia e delle classi subalterne con quelli generali di un paese in via di modernizzazione. Non c’è momento decisivo della storia italiana, in cui si siano ampliati i diritti sociali e civili, si siano conquistate migliori condizioni di vita e di lavoro, si sia difeso e favorito l’allargamento delle istituzioni democratiche, nel quale i comunisti non siano stati protagonisti. E questo al centro come in periferia.
Se, quindi, vogliamo trovare ancora altre risposte, altrettanto convincenti, agli interrogativi di Pandinelli e di Sorgi dobbiamo guardare alla presenza del Pci nelle tante e diverse realtà del paese, nelle sue periferie, nei comuni e nei territori.
La storia del Pci è storia di idee, programmi, forme organizzative, leader, gruppi dirigenti, lotte sociali e battaglie politiche, e impegno per il governo del paese (anche dall’opposizione, come diceva Togliatti), ma è anche storia di una militanza, e quindi storia di militanti.

La storia collettiva, di una comunità di donne e uomini, dirigenti, amministratori, sindacalisti, cooperatori, attivisti e semplici iscritti, che hanno operato nelle loro città, nelle loro fabbriche, nei loro posti di lavoro, che hanno tenuto vivo quel vasto reticolo di presidi di democrazia dal basso che sono state nel territorio le sezioni, che hanno organizzato le feste dell’Unità, animato le iniziative politiche, condotto dure battaglie. Le tradizioni recenti, i costumi, la cultura, l’intera vita sociale, tutto ciò in molti territori conserva tracce della loro presenza e della loro attività. Anche l’Umbria ne è stata fortemente segnata.
Gli storici hanno ricostruito tanti aspetti della storia del Pci e della sinistra umbri, ed hanno in più occasioni messo in luce il loro ruolo nella formazione e nello sviluppo dell’Umbria contemporanea, nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nella cultura. Le biografie, e soprattutto le autobiografie, dei dirigenti comunisti ci hanno mostrato tanti aspetti diversi, ma soprattutto ci hanno portato dentro il loro vissuto, facendoci conoscere passioni, energia, sentimenti, idealità, gli slanci generosi e le delusioni, gli importanti successi e le cocenti sconfitte. Ma anche le ambizioni, il cinismo, le divisioni, le inimicizie, di cui sovente è fatta la vita politica.
Per quanto molto importanti, sia per la conoscenza delle vicende che delle diverse esperienze, quelle che abbiamo sono pur sempre testimonianze e memorie di individualità, espressione di singoli punti di vista, con questa raccolta di testimonianze invece ci siamo voluti spingere oltre e rappresentare la vicenda collettiva dei militanti comunisti umbri. Ovviamente, per ragioni anagrafiche, le voci qui raccolte sono soprattutto quelle delle ultime generazioni, che potremmo definire in gran parte le generazioni berlingueriane. Generazioni accomunate dal rifiuto dei dottrinarismi, più pragmatiche, con una forte sensibilità democratica e spesso una concezione anche etica della politica. Attraverso i frammenti di queste storie individuali, rappresentative dei tanti umbri che sono stati comunisti, e che s’intrecciano tra di loro, abbiamo voluto fornire una visione d’insieme e dare un contributo alla migliore conoscenza di ciò che in Umbria è stato il Pci: dalle motivazioni che hanno portato ad aderire al partito, al primo impegno nella lotta politica, alle diverse esperienze vissute, con le loro luci e le loro ombre. Iniziamo da Terni per poi coinvolgere tutti i territori della regione. L’obiettivo della Fondazione “Pietro Conti” è di realizzare un archivio della memoria del Pci e della sinistra umbra. Non certo con intenti nostalgici e per archiviare definitivamente questa storia. Ma per mettere a disposizione dei contemporanei materiali di riflessione, nella convinzione, per dirla ancora con Marc Bloch, che una migliore conoscenza del passato aiuti a risolvere i problemi del presente. Questo volume, il primo dei tre che andranno a comporre l’opera, è una storia sentimentale collettiva dei comunisti umbri, che, attraverso i diversi racconti, parla di “una storia d’amore”, prendendo in prestito le parole dalla Storia sentimentale del Pci di Sergio Staino, di «una storia meravigliosa e terribile allo stesso tempo o forse, […], soltanto una
grande scorciatoia, tanto dolorosa da farti bestemmiare e poi piangere. Per tutto quello che è accaduto, per tutto quello che poteva essere e non è stato. Per i desideri appagati e per i sogni abortiti e abdicati, per quelli che ancora rimangono. Perché sognare una società più giusta non è soltanto una chimera da vecchi nostalgici, ai quali comunque sento [sentiamo] di non appartenere per nulla. È il comandamento che tutti i progressisti dovrebbero seguire, la stella polare di una esistenza vissuta alla ricerca della felicità, per sé e per gli altri. Sì, per tutti gli altri esseri umani».

In copertina, foto dal profilo Flickr di Rino Porrovecchio

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