A Gualdo Tadino l’obiettivo è contrastare «il degrado urbano, tutelare l’immagine della città e la sicurezza dei cittadini». A Terni si punta a sanzionare comportamenti che «determinano un senso di insicurezza per i cittadini e pregiudicano la quiete e la tranquillità». Linguaggio, immagini evocate, significati e rimandi sono perfettamente sovrapponibili. Solo che nel piccolo comune della fascia appenninica a parlare in quel modo è il sindaco Massimiliano Presciutti, una vita nel Pd. Nel secondo capoluogo dell’Umbria le argomentazioni sono invece di Leonardo Latini, sindaco pure lui, ma in quota Lega. In principio fu Claudio Ricci, all’epoca primo cittadino “civico” di Assisi. Era il 2008, e Ricci, sindaco della città di Francesco, uno che di elemosina aveva scelto di vivere per “statuto”, fece arrabbiare pure il quotidiano dei vescovi italiani, lo ricordano le cronache dell’epoca, per l’ordinanza che sanzionava con multe chi mendicava nella città che per una curiosa ironia della sorte viene definita “del Poverello”.
Da allora, ma a dire il vero anche da prima, di notizie di ordinanze, di blitz delle forze dell’ordine contro i poveri e di conseguenti applausi del giorno dopo si è riempito il web, in Umbria come nel resto d’Italia. Chi chiede l’elemosina disturba, genera insicurezza, danneggia l’immagine della città ed è quindi da punire. Che ci si definisca di destra, di sinistra, o né di destra né di sinistra, c’è una unanimità di fondo alla quale chi si oppone rischia di fare la figura dello scriteriato. Bene. Vestiremo i panni degli scriteriati.
La “colpa” di essere poveri
La sanzione, dice il dizionario on line del Corriere della Sera, colpisce chi non rispetta norme. Nel caso delle multe a chi chiede l’elemosina è la punizione per non avere di che vivere. Se uno la mette così, l’apparente buon senso di chi arma ordinanze e blitz anti-elemosina con argomenti come la «lotta contro il degrado e per la sicurezza dei cittadini» assume la consistenza dello smog: impalpabile ma letale. Ma se fosse così sarebbe fin troppo facile per degli scriteriati come noi. Invece, no. È difficile. Perché c’è un’altra freccia al servizio di chi ordina guerre contro i poveri. Non si vede, come lo smog, e anche questa è impalpabile e letale: uccide la realtà, la trasfigura a senso unico.
Il non detto è che la povertà è una colpa. È la colpa di chi la vive. C’è un larvato tentativo di esorcizzazione in questo atteggiamento. Tu che mi stai chiedendo l’elemosina sei povero perché te lo sei voluto, non hai voglia di lavorare; io invece non sono come te. Io so di essere artefice del mio destino, e infatti ho una casa, una macchina e dei vestiti che tu non hai per colpa tua. Tu non sei un frutto, sei il seme di te stesso, del frutto malato che sei diventato. In quanto frutto malato sei un’eccezione, un danno collaterale, un accidente, una falla momentanea. E io in quanto tale ti recingo. E facendolo ti definisco diverso da me, da noi, dai normali. Tu non sei me. Io non sono te, e quindi non sarò mai povero. E siccome la tua condizione è la tua colpa, la punizione è la giusta conseguenza.
La distorsione della realtà
È una logica implacabile, apparentemente cristallina e con l’armatura del buonsenso intorno. Si è stratificata su secoli di credenze e di storie raccontate quasi sempre dalla parte dei sovrani, delle classi dirigenti, quasi mai dalla prospettiva dei milioni di morti di fame che la storia l’hanno subita. È il frutto di un riflesso condizionato indotto, esattamente come l’assuefazione prodotta da una sostanza psicotropa. Uno specchio che restituisce un’immagine rassicurante ma falsa e, pure questa, letale perché annienta una parte di realtà. E annichilendola non consente di vederla, e così inibisce dal cambiarla. Perché non si cambia ciò che è normale. E la normalità è che si è poveri perché si è fannulloni. Questo è il racconto letale che porta ad abbracciare in buona fede la logica delle ordinanze «contro il degrado e per la sicurezza dei cittadini» da destra, dal centro e da sinistra. Andrebbe tutto bene, solo che non è così: la povertà non è una colpa ma un’epidemia. Lo dice l’Agenzia Umbria ricerche (Aur) in un rapporto deflagrante dell’anno scorso di cui parliamo più avanti. Lo ha capito il segretario nazionale del Pd, che ormai parla apertamente di «reddito universale» per sostenere le vittime di un contagio che affligge i normali, non i devianti. E l’hanno capito pure molti altri insospettabili: Mario Monti, il Financial Times, per non parlare del Papa (qui, per chi vuole, c’è un aggiornamento delle prese di posizione recenti).
Tutt’oggi però, in totale buona fede, c’è da scommetterci, nel Piano contro la povertà adottato dalla vecchia Giunta regionale nell’agosto del 2018 e valido per i successivi tre anni, 2020 compreso, si legge, dopo aver constatato amaramente che «l’Umbria è la regione con la più alta incidenza della povertà relativa familiare del Centro Italia», che «la situazione attuale si somma a quella già esistente e colpisce altri target di popolazione particolarmente debole e svantaggiata quali: le persone senza fissa dimora, vittime di violenza, sottoposte a esecuzione penale ed ex detenute, con problematiche legate alla dipendenza da sostanze legali ed illegali, in condizione di disabilità, non autosufficienti o con problematiche derivanti da grave fragilità psicologica e sociale, gli anziani soli, le famiglie a basso reddito con figli minori, le persone appartenenti a minoranze etniche, gli immigrati e i rifugiati richiedenti asilo». L’elenco è lungo, ma è composto esclusivamente da persone in condizioni straordinarie, «particolarmente deboli e svantaggiate». I normali mica vanno in galera, e non dipendono da sostanze, non sono in condizioni di fragilità psicologica. Quello è un elenco di altri. Ma la negazione di questa lettura residuale della povertà sta nella sua stessa premessa: «l’Umbria è la regione con la più alta incidenza di povertà relativa del Centro Italia». La povertà insomma non è un fenomeno marginale da chiudere in un recinto per specchiarvisi al contrario sull’adagio dell’io non sono come voi. La povertà è immanente, strutturale, fantasma minaccioso per tante e tanti ma reso invisibile dallo specchio distorcente che viene utilizzato un po’ per rassicurare, calmierare, e un po’ come sostanza psicotropa che maschera la realtà, la addolcisce e porta così a non volerla cambiare, conducendo a quello che viene definito analfabetismo emotivo, all’incapacità di percepire.
L’epidemia (in)visibile
Ci sono tra le 140 e le 150 mila persone in questa regione – una ogni sei residenti – che fanno i conti col non poter dotarsi di cose normali. Non chiedono tutte l’elemosina, ma esistono. E sono normali, però rese invisibili da questa realtà dimezzata. Vivono in cinquantamila famiglie la cui incidenza sul totale, oggi al 14,3 per cento, è più che raddoppiata dal 2002, quando era al 6 per cento. La stragrande maggioranza di questi nuclei ha minori al suo interno, e fatica pesantemente ad arrivare a fine mese. Si tratta di dati stra-conosciuti, racchiusi nelle statistiche dell’Istat e studiati nel “Rapporto sulle povertà in Umbria”. Un dossier curato da un’agenzia regionale, l’Aur, presentato tre mesi prima delle ultime elezioni regionali e scaricabile dal sito istituzionale della Regione. In cui sono scritte cose pesanti. Che rappresentano per la logica delle ordinanze anti accattonaggio apparentemente in favore della «sicurezza dei cittadini e contro il degrado» quello che l’iceberg fatale fu per il Titanic: un’enormità celata, non vista, su cui affondare. Si legge, in quel rapporto, che alla massa di nuclei già poveri, si aggiungono altre 33 mila famiglie «prossime alla soglia della povertà». Un dato che, come tutti gli altri citati, in Umbria supera in peggio quello medio nazionale. Ma c’è di più: la povertà va colpendo in massima parte giovani e persone che un lavoro già ce l’hanno. Su cento famiglie in cui la persona di riferimento è al di sotto dei 35 anni, in questa regione la povertà ne colpisce 11. E in più di dieci famiglie su cento tra quelle che si trovano in povertà assoluta, cioè che non riescono a soddisfare bisogni primari, c’è almeno una persona che lavora. Questo vuol dire che «il lavoro non protegge più», come recita il titolo di un paragrafo del rapporto dell’Aur. E significa che la povertà è un’epidemia dilagante, al contrario della rappresentazione psicotropa che se ne ha. Un fenomeno che ha a che fare con la produzione di ricchezza in questa regione, che è l’altro lato della medaglia della povertà. Una produzione che vede «lavoratori precari, intrappolati in occupazioni a bassa qualità retributiva, bassa intensità e con contribuzioni discontinue», con «un evidente slittamento verso il basso delle remunerazioni», dice ancora il rapporto Aur. Lavoro, lavoratori e povertà sono insomma strettamente connessi in questa regione. C’è stata una tale precarizzazione delle vite, negli ultimi vent’anni, ne abbiamo già parlato su Cronache umbre, che è diventata la vera radice del gigantesco fenomeno che oggi cerchiamo di non vedere, crogiolandoci dietro un’idea rassicurante e residuale della povertà che non ha ragione d’essere. Anzi, che ne è la negazione.
La parola innominata
È una rappresentazione così distorta, quella della povertà in questa regione, che per forza di cose occorre rintracciarne le ragioni in un racconto drogato, più o meno artatamente, più o meno consapevolmente, con atteggiamento più o meno esorcizzante. Tra le famiglie in povertà e quelle che rischiano di scivolarci il fenomeno coinvolge più del 20 per cento della popolazione regionale. Eppure, nonostante la solarità dei dati e la loro ampiezza, nel programma della candidata che ha vinto le elezioni dell’ottobre scorso, Donatella Tesei, la parola «povertà» compariva 8 volte in 48 pagine. Per non parlare di quello del suo principale sfidante, quel Vincenzo Bianconi che «per il bene dell’Umbria», lo slogan scelto per lanciare il suo programma, nominava la parola «povertà» appena due volte in 73 pagine; citando però per 67 volte «impresa» e «imprese». Mai quanto la sua avversaria vincente, che la parola «imprese» la utilizzava 71 volte. Una sproporzione che già di suo descrive lo stato dell’arte e del dibattito in Umbria. Non è un caso se mercoledì 22 aprile, in piena emergenza coronavirus, la Giunta regionale ha annunciato in pompa magna 38,5 milioni di aiuti a imprese e lavoratori (a questi ultimi a dire il vero toccheranno le briciole, un milione, e solo per la cassa integrazione). Non un centesimo è destinato ai poveri. E dire che siamo in una regione in cui sono state 4.380 le famiglie che a Perugia hanno fatto domanda per i buoni spesa del Governo, misura destinata solo a chi già non fruisse di altri sostegni e avesse documentato che lo stato di disgrazia si è generato dopo l’esplosione dell’emergenza. Altre tremila richieste sono arrivate a Terni. E si tratta di dati addirittura non definitivi di gente che chiede pane, pasta, latte, salsa di pomodoro, mica vacanze ai Caraibi. Alle quali peraltro rispondono qua e là i cittadini come meglio possono, organizzando iniziative di “spesa sospesa” o “solidale” che si moltiplicano nelle città, praticando solidarietà come meglio si può laddove ci sarebbe bisogno di risposte istituzionali avanzate e adatte ai tempi. Ancora: le richieste di cassa integrazione già avanzate in Umbria «interessano 9.840 lavoratori», riferisce l’assessore regionale Michele Fioroni. Si tratta di gente con salari già bassi che verranno ulteriormente decurtati (in Umbria la paga media oraria è più bassa di quella nazionale: 10,95 contro 11,25 euro lordi). Nuovi poveri che si aggiungeranno ai vecchi, quindi. Gente che davvero sta scivolando nell’insicurezza di non farcela, altro che le iniziative anti-accattoni mascherate da misure per la sicurezza.
Cambiare è necessario
A fronte di una situazione di questo tipo, aggravata da una emergenza sanitaria che tutto fa pensare diventerà uno spartiacque fra un prima e un dopo per le conseguenze peggiorative che scatenerà, i pochi soldi che si trovano sono per le imprese, vero feticcio per chi governa. Mai per le persone in stato di bisogno, che non sono i devianti, gli altri, come si ama pensare. Ma siamo noi, i nostri fratelli, sorelle, padri, madri, figli, figlie, amiche e amici; le migliaia di precari, malpagati, intermittenti che si arrabattano e alimentano col loro lavoro e le loro competenze un sistema economico del tutto inadeguato a mantenere le promesse di ricchezza con cui inebetisce le persone.
È evidente insomma che occorrano misure innovative, straordinarie e universali. Mario Draghi, non un redivivo Che Guevara, ha parlato di reddito di base in un suo recente articolo; il Financial Times, non la Pravda, discute di misure straordinarie e di nuovo ruolo del pubblico nel panorama devastato dal coronavirus; Papa Francesco, non Lenin, ha invocato un aiuto universale per chi non ce la fa, come si accennava all’inizio. Ma da queste parti si continua a parlare come se la povertà non esistesse o fosse una colpa, a trattarla da fenomeno da devianti; a non accogliere il principio che contro quella che è diventata una piaga occorrono misure inedite, non baloccamenti da liberali o da liberal da salotto. «Misure per le imprese» è una locuzione che poteva andare bene negli anni novanta del secolo scorso. Figlia di una logica che ha portato la presidente in carica a vincere con un programma in cui c’è scritto che contro la povertà occorre «un intervento sociale in cui convergano le richieste provenienti da soggetti pubblici (pronto soccorso, forze dell’ordine, operatori sociali ecc.) e che consenta una prima valutazione da parte di una equipe multidisciplinare che sappia indirizzare il soggetto richiedente in modo univoco e tempestivo». Parole in buona fede, ma frutto di una visione distorta e vecchia di una povertà che conduce al pronto soccorso, dalle forze dell’ordine e dagli operatori sociali. Non è così. Oggi i poveri non sono le categorie residuali in cui si ama rinchiuderli. Sono nelle case dei nostri palazzi, sono i nostri vicini di casa. Lavorano male e sono pagati peggio. Si privano del futuro per garantirsi il presente, e quindi si assicurano un futuro più povero del già difficile oggi. Di questo rovesciamento di prospettiva sono protagonisti i giovani, veri antieroi su cui pesa un’economia malata che però si continua a privilegiare e ad alimentare con misure che non prendono in considerazione le persone in carne e ossa. I giovani sempre più poveri, il loro vivere nel precariato dicono molto più di mille parole quanto questo sistema abbia smesso di guardare al futuro. Eppure questo sistema sopravvive, continua a succhiare risorse destinate «alle imprese» che andrebbero dirottate invece a mettere in sicurezza la vita delle persone, dei normali che un dibattito con gli occhi rivolti all’indietro non vede.
Schieramenti diversi, stessa visione
La logica della presidente di destra è la medesima di quella di chi l’ha preceduta (che era di sinistra). È la stessa del suo avversario sconfitto di centrosinistra. È quella della priorità dell’impresa, testimoniata perfino dal numero esorbitante di volte in cui questa entità è stata nominata nei rispettivi programmi. Nel piano contro la povertà già citato e varato dal centrosinistra si legge che «la degradazione delle condizioni familiari e sociali riduce la possibilità/volontà di ricerca attiva del lavoro». Ancora una volta si assiste alla riproposizione del binomio vizioso “degrado-povertà”, contrapposto a quello virtuoso “impresa-lavoro”. A questo proposito sorgono almeno un paio di interrogativi: come fanno l’impresa e il lavoro a garantire un’uscita dalla povertà se in questa regione, secondo l’Istat, ci sono 34 mila persone in cerca di lavoro a fronte delle 150 mila in stato di povertà, segno cioè che molte di queste ultime un lavoro ce l’hanno già, ma non riescono con quello con a sottrarsi dai graffi del bisogno? E come si pensa che la piaga della povertà giovanile possa essere sanata se il tasso di disoccupazione giovanile regionale rasenta il 30 per cento?
Un bagno di realtà, e misure conseguenti
È che le ricette antiche, per il solo fatto di esservi abituati, conducono a un senso di sicurezza che è però inesistente. Di fronte a questo panorama martoriato sarebbe necessario in prima battuta un bagno di realtà da parte dei decisori politici, e non solo. Poi occorrerebbe cominciare a pensare a interventi inediti: sostegno al reddito – cioè erogazioni universali in denaro – e servizi che garantiscano un accesso universale alla conoscenza, all’assistenza, alla possibilità di curarsi, ai beni comuni. Si tratta in parte di misure segnalate nel rapporto dell’Aur già citato più volte, che è un agenzia regionale in cui operano studiosi, non un covo di nord coreani sotto mentite spoglie. In Emilia Romagna ad esempio, dove ancora qualcuno ricorda di essere riformista per davvero, è stato varato da anni il reddito di solidarietà. In Umbria invece, continuano a prevalere narrazioni distorte e conseguenti misure fuori tempo perché figlie di un panorama che non esiste più. Per quanto ancora?