Persone al lavoro
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L’isola sommersa di chi lavora

 

Per saggiare davvero come cambia nel tempo un paesaggio può essere utile fare una foto dall’alto. Standoci immersi, in una realtà, a volte non se ne colgono le modificazioni, pur vivendole. È un po’ la stessa cosa che succede col nostro corpo allo specchio. Lo guardiamo tutti i giorni e non ne percepiamo le trasformazioni che si accumulano quotidianamente e che ci si squadernano macroscopiche, sorprendenti e quasi aliene nelle immagini che ci ritraggono qualche tempo addietro. È quello che è successo anche all’Umbria, oggetto come il resto d’Italia di un cambiamento prima carsico, ma ormai emerso dal sottosuolo con la forma prepotente del geyser, segnalandoci il tempo passato e le condizioni delle persone profondamente cambiate. Così, a guardare una foto di questa regione dell’inizio degli anni novanta del Novecento e confrontandola con l’oggi, pare siano passati non i trent’anni scarsi che ci separano da quel periodo ma molto di più.

Intanto, gli abitanti. Sono settantamila in più. È come se fossero sorte un’altra Spoleto e un’altra Gubbio. Anche il numero di persone che lavorano è aumentato, ma non in maniera sufficiente per coprire l’innalzamento demografico. E infatti il tasso di disoccupazione è cresciuto dal 7,7 per cento del 1993 all’oltre 10 per cento del 2018. Ci sono quasi 35mila lavoratori in più, e sono quasi tutti alle dipendenze di qualche privato: 265mila in tutto, mentre gli occupati totali, cioè compresi gli autonomi e il pubblico impiego, sono 355mila. E una delle criticità più laceranti sta proprio qui: nei lavoratori e nelle lavoratrici del settore privato, le cui condizioni sono assai cambiate. In peggio. Vale la pena di dare un’occhiata.

Più instabili, e con le donne al palo

Scontano, i lavoratori e soprattutto le lavoratrici umbre, una paga media oraria più bassa di quella italiana. Qui sessanta minuti di lavoro valgono in media 10,95 euro lordi; nel resto della penisola vengono mediamente retribuiti con 11,25 euro. La costante che vede le donne immancabilmente discriminate restituisce un altro dato: il loro lavoro viene pagato in questa regione solo 10,48 euro l’ora. Ma si tratta solo della prima di una serie di contraddizioni non da poco. Nell’arco del periodo che abbiamo scelto di prendere in esame si è allargata un’altra faglia, profondamente intrecciata al dato economico e in grado di amplificarne gli effetti peggiorativi. È quella che si potrebbe definire della precarizzazione della società umbra, andata di pari passo con quella italiana, dove accanto all’aumento dei disoccupati, si è passati dal 10 per cento di occupati a tempo determinato nel 1993 al 17 per cento del 2018. In venticinque anni i lavoratori a tempo indeterminato sono aumentati di poco meno del 19 per cento mentre nello stesso periodo quelli a tempo raddoppiavano (tabella a). Una crescita che ha fatto il paio con un altro fenomeno: l’incremento del ricorso al part time. Nelle quattro regioni del centro Italia di cui l’Umbria fa parte, nel 1992 i lavoratori a tempo dimezzato erano il 13 per cento del totale; nel 2019 sono arrivati ad essere quasi il 20 per cento: uno su cinque. Il grande aumento di lavoratori che hanno il contratto con la data di scadenza scritta sopra e di quelli che svolgono un orario ridotto ha un altro risvolto economico: un’ora lavorata da loro viene pagata di meno rispetto a quella di un lavoratore a tempo pieno e indeterminato. In questa regione un lavoratore full time e a tempo indeterminato percepisce in media 11,4 euro lordi l’ora. I sessanta minuti di chi è stato precarizzato con part time e tempo determinato valgono invece 10,11 euro (tabella b). E anche in questo caso sono le donne a farne di più le spese. Nelle regioni del centro, dove rappresentano il 44,7 per cento del totale degli occupati, sono infatti in maniera del tutto sproporzionata firmati da loro il 74 per cento dei contratti part time. Mentre gli occupati uomini costretti al tempo determinato sono il 19 per cento, laddove la percentuale delle donne sale al 20. La questione femminile poi si arricchisce di un ulteriore paradosso se si prendono in esame i titoli di studio. Le donne rappresentano il 54 per cento del totale delle persone laureate. Nel loro caso però, non vale affatto la correlazione titolo di studio più alto-maggiore retribuzione, visto che la loro retribuzione è mediamente più bassa rispetto a quella degli uomini (tabella c). Ciò significa almeno un paio di cose: che le donne sono maggiormente costrette al part time, in cui ricordiamolo, ogni ora è pagata mediamente di meno, sia per scelta che per obbligo, avendo spesso sulle loro spalle il lavoro di cura all’interno delle mura domestiche; e che sono costrette ad accettare lavori non corrispondenti al loro titolo di studio perché vittime di un sistema economico viziato da evidenti tratti di machismo.

Tabella a

Numero di occupati in centro Italia a tempo indeterminato e a tempo determinato

(differenza 1993-2018)

Tipo di contratto

1993

2018

Differenza

Tempo indeterminato

2.702.255

3.212.420

+19%

Tempo determinato

304.559

614.101

+101%

Elaborazione su dati Istat

Tabella b

Retribuzione media oraria lorda dei dipendenti in Umbria per tipo di contratto

Tempo indeterminato

Tempo determinato

Full time

Part time

11,42

10,10

11,38

10,12

Dati Istat relativi al 2017 espressi in euro

Tabella c

Retribuzione media oraria lorda in Umbria per genere

Uomini

Donne

11,37

10,48

Dati Istat relativi al 2017 espressi in euro

Il guadagno delle imprese

Riepilogando: c’è stata negli anni una erosione consistente non solo delle garanzie dei lavoratori, ma anche un peggioramento delle condizioni retributive per ora lavorata; in entrambi casi le donne sono le più penalizzate. Il ricorso a part time e contatti a tempo determinato ha consentito alle imprese di comprimere in maniera più che proporzionale le retribuzione, vista la disparità di trattamento salariale tra i lavoratori cosidetti tipici e gli atipici. E ciò in una regione in cui anche chi viene pagato meglio non raggiunge la media nazionale. Tutto questo lo si riscontra in maniera solare se si prendono in esame i dati relativi alle imprese. La foto dall’alto così assume quasi le sembianze di una di quelle isole che nel corso del tempo vengono sommerse dall’innalzamento dei mari, e l’isola in questo caso è quella in cui sta il potere contrattuale e quello d’acquisto dei lavoratori. Sì, perché certo, c’è stata la crisi. Ma i dati forniti dall’Istat analizzati finora e quelli di cui stiamo per dire smentiscono un bel po’ di luoghi comuni. La crisi non è stata tale per tutti. Ha sommerso alcuni, mentre alti se la sono cavata; altri ancora si sono pure potuti comprare lo yacht per navigare meglio, sempre per stare alla metafora. Nel 2007 le imprese umbre erano oltre 73mila. Alla fine dell’anno avevano fatturato complessivamente oltre 37 miliardi, cui avevano contribuito 257mila addetti. Dopo dieci anni di tsunami economico, nel 2017, erano state tremila le imprese che avevano dovuto chiudere i battenti; il numero di quelle operanti era indietreggiato più o meno al livello del 2002, circa 70mila. Con due grandi differenze, però, rispetto all’alba del millennio. Che lette insieme danno bene l’idea della fine che ha fatto l’isola dei lavoratori e delle lavoratrici. Il fatturato complessivo delle aziende umbre era comunque aumentato rispetto al 2002 di 5,5 miliardi, cioè del 19 per cento. Il costo pro capite per remunerare i lavoratori era invece rimasto lo stesso: 15mila euro e qualche spicciolo. Solo che nel frattempo il costo della vita era aumentato del 30 per cento. Il frutto della precarizzazione insomma ha portato lavoratrici e lavoratori a veder diminuito il valore delle proprie ore di lavoro, e ciò nel medio periodo ha portato a una perdita secca del potere d’acquisto di circa un terzo, mentre il fatturato complessivo delle imprese umbre depurato del tasso di inflazione è calato sì, ma molto di meno. La sproporzione, anche in questo caso, è evidente.

L’oceano del precariato

Questa è l’immagine che scaturisce da una panoramica dall’alto. Questo è ciò che ci restituisce il confronto tra il corpo dell’Umbria apparentemente immutato che risulta allo specchio di chi lo guarda quotidianamente, con la prospettiva schiacciata sul qui e ora, e quello risultante dal confronto con un’immagine scattata solo qualche anno fa, anche se pare passata un’era geologica. E la proiezione che lasciano intravedere i dati non è delle migliori, se non ci si mette mano. Secondo l’Osservatorio sul precariato istituito dall’Inps, nel 2018 in Italia sono state fatte 7,5 milioni di assunzioni. Di quel numero, solo una minima parte (1,2 milioni) è stata a tempo indeterminato. I restanti 6,3 milioni di assunti sono diventati lavoratori a tempo determinato, stagionali, intermittenti e apprendisti. Cioè precari e precarie. Nello stesso anno i passaggi da contratti a scadenza a contratti a tempo indeterminato sono stati solo mezzo milione; numero evidentemente insufficiente a coprire il totale dei precari, che se va bene tali rimangono, altrimenti si trasformano in disoccupati. E in Umbria c’è un altro dato che dovrebbe far preoccupare, visto in proiezione futura: nel 2018, una persona su due tra i 15 e i 29 anni non studiava né lavorava né era impegnata in progetti di formazione. Si tratta di 2.300 ragazzi e ragazze che rischiano di navigare verso il nulla. Né lavoro, né libri. Come a dire che insieme all’isola delle lavoratrici e dei lavoratori rischia di affogare anche la speranza di e nel futuro. Sono trasformazioni trascurate, perché quello specchio, giorno per giorno, ci rimanda un’immagine che sembra sempre la stessa. Invece le cose cambiano. In peggio, nel nostro caso. E l’alibi dello specchio adesso non regge più. Come l’ordinaria amministrazione, che nei tempi straordinari che hanno favorito l’esplosione della precarizzazione si è dimostrata non solo inadeguata, ma la migliore alleata dell’innalzamento dei mari che hanno sommerso l’isola di chi lavora, e/o lavorava e/o un lavoro e una vita decenti rischia ora di doverli cercare altrove.

Ultimo aggiornamento 15/3/2020

Foto da pikrepo.com

 

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