Due ragazzi chiacchierano su una panchina
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Lu gnomo e lu scarso

 

Dopo l’ennesimo atto del Bandecchi show, con le dimissioni annunciate per colpa dei “suoi” e le dimissioni ritirate per merito degli “altri”, precedute dalla solita pirotecnica intervista a cui il testo che segue si rifà liberamente, non rimane che far descrivere la grottesca situazione di Terni dagli occhi disincantati e dalla narrazione atipica de lu gnomo e lu scarso, con uno sguardo finale volto a ciò che potrà accadere prossimamente alle comunali di Perugia prima e alle Regionali poi. Continuare a salire sulla giostra criticando la giostra stessa con compìto e sdegnato denunciare, infatti, non fa altro che legittimare gli interessi altri del giostraio, che ahinoi è per sovranità popolare e demeriti altrui anche il sindaco della fiabesca e immaginifica Loveland.

Claudio e Carlo, lu scarso e lu gnomo per gli amici grazie agli affettuosi scambi di improperi durante le partite di tressette giocate nel bar vissuto come seconda casa, erano soliti passare gran parte del loro tempo libero insieme. E di tempo libero ne avevano molto a disposizione visto che entrambi erano vittime del singhiozzare sincopato che caratterizzava il curriculum lavorativo di quella generazione né giovane né anziana e forse nemmeno compiutamente adulta a cui appartenevano. Tanto lu gnomo quanto lu scarso erano due tipi dalle poche parole, le loro conversazioni erano fatte di sguardi complici, risate condivise, spallate reciproche e spallucce contrapposte. I loro dialoghi brevi e serrati erano dominati dalle regole ferree di un’austerità scelta dalla loro svogliatezza, senza dunque farsela imporre dal frenetico concatenarsi degli eventi. Erano entrambi figli della pancia operaia di una città che aveva fatto della produzione dell’acciaio vanto collettivo e inquinamento diffuso. Se le ciminiere fumano io porto i sordi a casa tanto de che cosa tocca mori’, questo il succo dei discorsi fatti dai rispettivi padri di fronte ai loro timidi tentativi, timidi ma riusciti alla prova dei fatti, di sottrarsi alla catena di sant’antonio che pretendeva ricambio familiare di fronte allo spalancarsi dei forni e al discaricare delle scorie. Di padre in figlio, questa la regola non scritta che campeggiava all’interno delle mura annerite di viale Brin, come d’altronde dentro le stanze dorate delle banche popolari e delle casse di risparmio. Tanto lu gnomo quanto lu scarso avevano deciso di sputare sul piatto che li aveva sfamati, per ragioni incomprensibili agli occhi dei genitori, finendosi con il meritare, secondo una lapidaria saggezza popolare che usciva dal familistico per abbracciare l’intero tessuto sociale, quello stato di precarietà che seppur diffusa e dilagante continuava a essere pervicacemente considerata volontaria. Una volontarietà presunta che negava loro il diritto a ogni forma di sostegno.

Un giorno, mentre erano seduti su una delle panchine del centro cittadino sopravvissute allo sradicamento edonista del nuovo sindaco, rincorrendo tenacemente quella presunta normalità, non certo riferita all’alta scuola di Pisa, che pretendeva di guardare sfilare con dovuta attenzione ogni bel culo passasse in zona, decisero senza accordo alcuno e senza copione scritto di imbarcarsi in uno sketch a proprio uso e consumo, uno spettacolo improvvisato che non prevedeva spettatori al di fuori dei due interpreti.

«Si uno scappato de casa», esordì lu gnomo dando una spallata a lu scarso.

«Si come Cecconi», controbattè pronto lu scarso restituendo la spallata.

Gnomo: «Ma non lo vedi che tristezza, guardali so’ tutti vestiti uguali».

Scarso: «Io direi umiliazione, cazzo, semo tutti vestiti uguali, tutti poracci».

Gnomo: «Beh, pe’ non parla’ de quelli che c’emo là a casa, chi militare, chi drogato».

Scarso: «Lascia sta’, lascia sta’».

Gnomo: «Ma hai visto quanti cazzo de vigili urbani che ce stanno pe’ strada? ‘sta città è proprio sicura!».

Scarso: «Si proprio un pollo, più guardie da che mondo è mondo non hanno mai fatto meno ladri».

Gnomo: «È arrivato pensace in versione filosofo de provincia, ricordate che semo un laboratorio politico».

Scarso: «A me me pare tanto che semo polli de allevamento che mannano giù de tutto».

Gnomo: «Lu solito scienziato, cazzo. Ma prima de Terni non fregava un cazzo a nisciuno, mò stamo sempre sulle prime pagine de giornali e telegiornali».

Scarso: «Appunto, come polli de allevamento che mannano giù tutto».

Gnomo: «Mabbè, ‘sta città adesso è pulita non trovi ‘na cartaccia pe’ terra manco a cercalla».

Scarso: «Ma certo, ma come no, pulitissima: la Bolzano del centro Italia».

Gnomo: «Nonostante poi le cooperative amiche degli amici che te lo lascio solo pensa’ quanta voja e quanta capacità c’hanno».

Scarso: «Poru scemo».

Gnomo: «Aho, vola basso co’ me, stai basso e schiacciato».

Scarso: «Già».

Gnomo: «Ecco bravo, comportamento basso».

Scarso: «Già».

Gnomo: «Ma cazzo: i fiori pe’ le strade, le rotonde artistiche, sottopassi mai fatti, cimiteri sempre rimandati».

Scarso: «I fiori tocca innaffialli e non cemo l’acqua, le rotonde le odio, ho sempre preferito li semafori, soffro de claustrofobia, sotto strada me sento manca’ l’aria e li cimiteri me buttano ansia»

«Si proprio uno scappato de casa», sentenziò lu gnomo infilandosi una caramella in bocca e masticando con scomposta veemenza.

«E tu un pollastrone», rispose facendo spallucce lu scarso.

Gnomo: «Basso, devi sta basso».

Scarso: «Ma come, non semo tutti uguali?».

Gnomo: «Ma sta zitto, partimo tutti co’ le stesse possibilità e poi ognuno c’ha quello che se merita».

Scarso: «Ah ah ah, quello che se merita, ah ah ah».

Gnomo: «Ridi, ridi, tu e l’amichetti tua che non hanno mai fatto un cazzo nella vita, so’ finiti li giochi è arrivato chi ve sveja, lui sì che c’ha le idee chiare cazzo».

Scarso: «Beh come no, io so io e voi nun sete ‘n cazzo, la democrazia cristiana co’ tante correnti e un solo padre padrone ah ah».

Gnomo: «Sì, sì, ridi ridi ma intanto state sempre là a piagne da lu prefetto, gne gne».

Scarso: «Ma te senti mentre parli o apri bocca e je dai fiato?».

Gnomo: «me sento , so finiti li giochi cazzo anche pe’ quelle mammolette de lu partito sua».

Scarso: «Ecco bravo, ‘na cosa giusta l’hai detta de lu partito sua, un partito de proprietà».

Gnomo: «Mejo un padrone illuminato, che un partito de scemi».

Scarso: «E mo’ semo tutti».

Gnomo: «Eh scì, e poi ancora non ha messo mano sulle strade, aspetta e vedrai».

«Eh già, come se dice: tutte le strade portano a Roma e qualcuna anche a Bruxelles», concluse sconsolato lu scarso allargando le braccia quasi a dare una bonaria benedizione all’amico.

«Gnè, gnè», fu la replica de lu gnomo.

«Cocococodè», ribatté l’amico.

Risero all’unisono, soddisfatti della prestazione e consapevoli di aver rappresentato la confusione totale che regnava in quella città dove alle promesse dello scintillìo solare di Dubai si alternava cinico lo stridore della pioggia che perfida cade sul bagnato. A pochi chilometri di distanza intanto, o meglio dall’altra parte del campanile il cui orologio dettava i tempi dell’odio regionale, una marziana cercava di riportare luce nell’oscurità di una selva che aveva finito con l’avvolgere la vita. La politica ha bisogno di sedimentare sul fondo del barile e raschiare il raschiabile e anche un po’ di più prima di risollevarsi, chi ha la fortuna e il merito di godere del tepore della primavera deve perciò sempre rendere onore, per onestà intellettuale, a chi ha avuto la sfortuna e il demerito di congelarsi nel rigore dell’inverno. Lu gnomo e lu scarso, intirizziti dal peggior freddo possibile, quello che ti entra dentro occupando le ossa, mai avrebbero potuto ammettere di appartenere alla parte sfortunata segnata dal demerito, non perché non consapevoli, ma perché il campanile era l’unica cosa certa che gli fosse rimasta.

Foto da pxhere.com

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