Ilaria Salis
Commenti

Il corpo di Ilaria

 

L’antifascismo rivendicato da Ilaria Salis ha poco di evanescente, è l’antifascismo militante che i nostri governanti, eredi naturali di quel Movimento sociale che mal digerì la fine del fascismo e l’avvio dell’Italia repubblicana, proprio per sviare le attenzioni dalle proprie radici, mai rinnegate, demonizzano facendolo passare, attraverso una propaganda che dagli scantinati di periferia è arrivata ai palazzi di governo finendo con il monopolizzare ogni canale mediatico, come il male assoluto. Per il governo attuale, impegnato a risolvere tutti i guai del sistema mondo grazie al protagonismo senza precedenti della presidente, al confronto del quale anche il prodigioso Mario Draghi è da considerarsi dilettante allo sbaraglio, l’antifascismo militante, la pratica politica che fa del proprio corpo mezzo preferenziale di azione e dell’azione diretta prassi quotidiana, è quell’eredità che viene dai violenti anni ‘70 e che impedisce la normalizzazione del Paese. Una normalizzazione che prevede il raggiungimento di una memoria condivisa attraverso un oblio diffuso in grado di fare un tutt’uno delle tante memorie molteplici e divisive nate, cresciute o alimentate nel ventennio che ha spiegato con indiscusso successo la strada del nazismo a Hitler.

Onestà intellettuale vuole che persino negli anni ‘70, almeno nei gruppi più avanzati e avventurieri della galassia extraparlamentare, l’antifascismo militante fosse vissuto come un tramando dovuto ma anacronistico, rispetto alla lotta senza quartiere che si doveva portare avanti contro quel tentacolare nemico poliforme e sfuggente conosciuto come il capitalismo. I cosiddetti cattivi maestri, impegnati come erano nel (ri)scrivere Marx, cercando di andare oltre per materializzarlo nella contemporaneità, grazie al loro alto sapere diffuso che nulla aveva di accademico, pur librandosi all’interno degli italici atenei partendo dalle cattedre conquistate con meriti indiscussi, consideravano il fascismo maschera, non essenziale al loro tempo, di un sistema predatorio dal volto disumano. Avevano chiaro in testa dove poteva arrivare il capitalismo nei momenti di affanno – l’esempio cileno era sotto gli occhi di tutti -; conoscevano bene, per averle provate sulla propria pelle, le recrudescenze delle azioni partorite dai servizi più o meno deviati e messe in pratica dai neofascisti garantiti dallo Stato, al pari dei titoli finanziari emessi; sapevano di dover rendere tributo e merito ai partigiani della Resistenza, che tanto avevano contribuito alla fine del fascismo, ma il loro sforzo teorico e il loro impegno militante era tutto volto a ribaltare il sistema piuttosto che combatterne una semplice parte, per quanto brutale. La repressione seguita, fatta di galera dura e carceri speciali, che ha preteso abiura senza se e senza ma sostituendo il diritto con il suo rovescio, la punizione simbolica e sistematica che per anni ha rimpiazzato nei tribunali la scritta “la legge è uguale per tutti”, non ha mai intaccato la determinazione e il sapere di quei cattivi maestri, ma ha certamente ricondotto a ragione chi dalle loro mani avrebbe dovuto raccogliere il testimone tanto a livello teorico – nella ricerca continua di quell’oltre che eccedeva ed eccede Marx – quanto sul piano della prassi attraverso azioni in grado di ribaltare lo Stato delle cose.

Insomma gli anni ottanta sono stati un vero e proprio rullo compressore su quell’assalto al cielo che una generazione intera aveva coltivato e condotto con febbrile partecipazione, un rullo compressore trasformatosi nei decenni successivi in magica scatola dei desideri che ciascuno di noi poteva aprire per trovare la felicità attraverso il successo personale. La singolarizzazione e la moltiplicazione dei desideri (esclusivamente economici), possibili e quasi mai attuabili, unite alla sistematica e progressiva cancellazione dei diritti (sociali) collettivi acquisiti, ha di fatto posto una pietra tombale punendo l’assalto e trasformando con fattualità terrena i colori del cielo. Quel sapere alto diffuso e conflittuale è andato via via scemando facendosi con sempre maggiore evidenza, con le dovute eccezioni, sterile, individualizzato, compatibile.

La stagione dei centri sociali, che ha visto nelle giornate di Genova un punto di arrivo laddove si era pensato di posizionare un trampolino di lancio, che quel testimone ha provato a raccogliere, non riuscendo a costruire una vera alternativa, a partire dalla mancata “circolazione” di un valore altro (della moneta e perché no della relazione), non ha potuto far altro che rivendicare l’antifascismo militante come questione identitaria. Un’identità, visti ahinoi i risultati delle piazze e delle urne, votata alla sconfitta. Ilaria Salis, maestra antifascista, mi perdonerà il ministro Salvini, che ignora il senso del diritto e che ben conosce lo sprezzo del rovescio, è una donna ben consapevole del vicolo cieco in cui siamo finiti: come non sapere che il presidente del Senato custodisce gelosamente busti del duce e che gli amici cari della presidente del Consiglio, in quell’Europa dell’est che ha vissuto il socialismo reale da satellite, vanno a braccetto con i neonazisti? Ma da maestra e da antifascista sa che nella resistenza al dominio dal volto truce il corpo è mezzo e la piazza è luogo. Così con altri suoi compagni, magari non maestri, non ha mai smesso di far trovare il suo corpo contro nei luoghi dove quel contro andava agito. A testa alta e schiena dritta laddove l’ingiustizia si manifesta, il sopruso si fa padrone e i rigurgiti di una storia maledetta pretendono di farsi legge. Cosa chiedere di più a una maestra? Cosa volere di diverso da un’antifascista? Il problema che oggi si tenta di scaricare, con il solito fare dello scaricabarile usato a mo’ di passpartout universale, sulla presunta antidemocraticità di Ilaria, che altro non fa che combattere gli intolleranti con l’intolleranza, è un problema che riguarda tutti noi.

Che Europa andiamo costruendo? Il continente della pace che ha scatenato le guerre mondiali cosa vuole essere? Un contenitore allargato che costruisce identità attraverso l’abbattimento dei confini e l’estensione dei diritti o una sommatoria di stati nazione votati alla difesa di se stessi che fanno dell’esclusione dell’altro ragione di Stato? Ecco, Ilaria tenuta a guinzaglio in un tribunale europeo da un militare con passamontagna, con mani e piedi incatenati per aver partecipato a una manifestazione che si opponeva alla “commemorazione” del nazismo fatta da neonazisti, ci sbatte in faccia questi interrogativi. Ilaria come suo solito mette il suo corpo al sevizio della causa, sta a noi raccogliere il suo urlo contro un’ingiustizia brutale che pretende essere potere. Ilaria è incarcerata da quasi un anno, un anno fatto di indifferenza totale da parte di tutti, dalle istituzioni ai singoli cittadini. Il corpo di Ilaria umiliato in tribunale e “torturato” nelle carceri ungheresi, non chiede interventi di favore da parte dei potenti, ma pretende il riconoscimento del diritto come architrave dell’Europa che sarà. Non si accontenta della “pressione” tardiva della Meloni sull’amico Orban, ignora le farneticazioni del ministro della gogna contemporanea, ma reclama giustizia per le sue ragioni che di suo hanno ben poco visto che sono le ragioni di chi ha a cuore il destino del diritto (europeo), che altro non è se non la materializzazione di un potere costituente che attraverso i corpi continuerà a mettere in discussione l’arroganza di ogni potere costituito.

Come non chiudere ricordando, con un sorta di rassegnato sarcasmo suicida, che gran parte di quei maestri chiamati cattivi hanno fatto della filosofia del diritto materia di insegnamento universitario a livello internazionale, mentre il presidente e il suo ministro mai, hanno avuto il piacere di conquistare titoli accademici. Bandecchi e la sua “fabbrica di lauree al servizio del potere” potrà sempre smentirmi ovviamente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *