Cartello che annuncia la presenza di impianti di videosorveglianza
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Più telecamere danno più sicurezza? Le impressioni, la propaganda e la realtà

 

Negli ultimi cinque anni sono quadruplicate le installazioni di strumenti pubblici di videosorveglianza a Perugia e Terni, ma a ciò non ha corrisposto una diminuzione dei reati commessi nelle strade. Invece le telecamere potrebbero diventare nel futuro prossimo delle autentiche minacce per il nostro vivere

Nel 2016, anno a cui risale la “Rilevazione su sicurezza urbana e sicurezza stradale” della sezione dell’Umbria dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), le telecamere di videosorveglianza censite a Terni e Perugia erano complessivamente 95. A distanza di cinque anni, solo a Terni se ne contano 140, secondo quanto riportato nel dettagliato sito dell’amministrazione comunale. A Perugia invece, alle 316 già attive se ne stanno aggiungendo altre 14, come annunciato dall’assessore alla Sicurezza, Luca Merli, nel giugno scorso. Nei due capoluoghi il numero di telecamere per la sorveglianza è quindi quadruplicato in cinque anni: da 95 a 470. Mantenendo la proporzione, si può concludere che le 566 telecamere censite dall’Anci cinque anni fa negli 83 comuni che risposero al questionario siano diventate nel frattempo all’incirca duemila. Stiamo parlando della strumentazione di cui sono dotate le amministrazioni comunali, il numero è quindi al netto delle telecamere fatte installare dai privati.

Se si dividono le spese di installazione totali dichiarate per il numero di telecamere in dotazione ai comuni che avevano risposto al questionario (come si può vedere a pagina 21 di questo documento), si ricava che la media di spesa per ognuno di questi occhi elettronici era stata all’epoca di 1.992 euro. Un esborso a cui vanno aggiunti quelli relativi alla gestione e manutenzione degli impianti. Per dare un’idea, il 30 maggio 2018 la giunta comunale di Perugia ha approvato 430 mila euro di spesa per «Impianti di videosorveglianza, aree verdi e viabilità pubblica»; il 14 ottobre 2020 sono stati impegnati dallo stesso esecutivo 240 mila euro per «l’estensione della rete di videosorveglianza per il centro storico e la città di Perugia»; il 18 novembre dello stesso anno, nel pieno della seconda ondata della pandemia da coronavirus, sono stati approvati 43 mila euro di spesa per «connessioni di rete ed estensione videosorveglianza del sistema Perugia città sicura»; lo scorso 14 luglio invece, sono stati stanziati 89 mila euro per la riqualificazione del sistema di videosorveglianza dello stadio.

Il business della sicurezza, in particolare della videosorveglianza, sta facendo passi da gigante. Tra il 2018 e il 2019, delle dieci maggiori  aziende del settore, sei hanno visto il fatturato lievitare con percentuali a due cifre (si veda pagina 24 di questo documento). Secsolution, portale specializzato in sicurezza, ha rilevato che nel 2019 il mercato mondiale dei dispositivi di videosorveglianza valeva 19,1 miliardi di dollari e rappresentava il 56 per cento del totale degli affari del settore sicurezza. Lo stesso portale stima che nel 2025 il giro d’affari supererà i 25 miliardi.

A fronte di cifre del genere e di continui investimenti da parte delle amministrazioni pubbliche, ci si aspetterebbe un effetto sulla diminuzione dei reati. Ma la verifica di questa proporzione è assai intricata; e anzi, alcuni dati sembrerebbero smentire la correlazione. L’Istat rileva che nel periodo 2015-2019 in Umbria c’è stata una generale diminuzione dei reati denunciati: da 32.818 a 30.457. Sono gli anni della corsa alle telecamere. Però, l’effetto sui delitti commessi nelle strade, vale a dire quelli sui quali l’installazione degli strumenti di videosorveglianza dovrebbe avere avuto effetto, non pare esserci stata. Le rapine «in pubblica via», come le definisce l’istituto nazionale di statistica, sono passate in quel periodo da 101 a 117; i danneggiamenti da 3.644 a 4.021; gli incendi da 93 a 115. Ci sono state tre rapine in meno ai danni di esercizi commerciali (da 31 a 28) e un calo generalizzato dei furti, ma sulle prime pare di poter dire che l’enorme mole di investimenti in presunta sicurezza, cioè in videosorveglianza, non abbia dato i frutti sperati. Per quanto riguarda i furti, essendo una categoria piuttosto estesa e varia, occorrerebbe valutare caso per caso se le telecamere abbiano potuto davvero avere un effetto deterrente.

Essendo fallito l’obiettivo dell’abbassamento del numero dei reati commessi in strada, ed essendo contestualmente aumentato in maniera esponenziale il numero delle telecamere installate, non è esagerato concludere che l’assioma “più telecamere = più sicurezza” è un palazzo senza fondamenta. Una costruzione che si regge su un’impressione, più che su dati verificabili. Le telecamere non garantiscono più sicurezza, bensì danno l’idea di stare più sicuri. Si tratta di due piani completamente differenti. Confonderli significa scambiare la realtà con una sua rappresentazione distorta. È un po’ come sostenere che una società con più carceri è una società più sicura. Invece, semplicemente, la società più sicura è quella in cui si commettono meno reati, si fa più prevenzione e ci sono di conseguenza meno persone da chiudere in galera. La telecamera è una scorciatoia tanto facile quanto illusoria.

La sicurezza nelle città, è una questione di sistema che tocca cioè diversi ambiti, ridurla a interventi spot o di mera repressione può aiutare a prendere voti, ma non a risolvere i problemi. Il richiamo della scorciatoia è forte e generalizzato, nonostante la scorciatoia sia efficace a raggiungere la meta come una strada senza uscita, oltre a essere costosa. Per questo è opportuno tentare di decostruire il ragionamento che ne è alla base. Possiamo assumere come una sorta di esempio di figura archetipica di questo modo di ragionare questa dichiarazione diramata dal gruppo consiliare di Fratelli d’Italia al Comune di Perugia in occasione di uno degli innumerevoli annunci di installazione di nuove telecamere in città: «La sicurezza di Perugia è sempre stata al centro dell’azione amministrativa e politica di Fratelli d’Italia; gli interventi di installazione delle telecamere per la videosorveglianza a Fontivegge attestano la validità di quanto finora fatto» (corsivo nostro). Un sillogismo apparentemente ferreo, che si fonda però sulla confusione tra la sicurezza reale e quella che è invece, al limite, la possibilità di perseguire chi commette il reato grazie all’aiuto delle telecamere. I dati Istat smentiscono anche questo ultimo aspetto: nel 2015 i delitti di cui si è scoperto l’autore erano stati il 22 per cento, nel 2019 la percentuale era scesa al 20,7 per cento. Ma anche a voler dare per buona la funzione delle telecamere in fase di indagini, ciò non equivale a maggiore sicurezza. Perché le indagini si fanno a delitto commesso, e i delitti commessi in strada, come si è visto, non sono affatto stati calmierati dal maggior numero di telecamere su cui si è investito.

La funzione benefica delle telecamere ai fini della prevenzione dei reati, e quindi della sicurezza reale, non è affatto data per scontata dalla comunità di studiosi che si occupa di sicurezza, e l’affidare alle telecamere una funzione salvifica è, come si è visto, fuorviante e intimamente inefficace ai fini del mantenimento di condizioni di sicurezza. In molti peraltro, sottolineano l’effetto definito cosidetto di displacement. Che significa che l’installazione di telecamere può portare beneficio, forse, nelle zone illuminate dagli occhi elettronici, ma sposta la commissione di reati nelle aree che rimangono al buio. E a questo proposito giova sottolineare come l’oggetto di interventi di installazione delle telecamere sia molto spesso il centro storico. Il cosidetto salotto buono delle città che si tende a preservare spostando, magari inconsapevolmente, la polvere verso le periferie. La mappa delle telecamere installate a Terni, illustra in maniera efficace questa tendenza perseguita ampiamente anche a Perugia.

Nel 2008 fece piuttosto rumore la dichiarazione della polizia londinese che puntava il dito contro il fallimento degli investimenti fatti in videosorveglianza decretandone l’inutilità in termini di prevenzione dei reati. In quella stessa dichiarazione però, si apriva alla possibilità di una maggiore efficacia delle telecamere se si fosse innnalzata la capacità di riconoscimento biometrico. Il ragionamento era il seguente: se il controllo fosse in tempo reale e il riconoscimento fosse più accurato, allora le telecamere potrebbero avere un senso in termini di prevenzione dei reati. Ora: anche il riconoscimento biometrico pare una forma di intervento più congeniale ex post, cioè a reato commesso, che a fare prevenzione, e quindi garantire la sicurezza reale. Ma qui si apre una questione gigantesca che non è solo di privacy, e che ha a che fare con l’autentica minaccia che gli oligopolisti della estrazione e del trattamento dei nostri dati personali rappresentano da anni sulle nostre vite.

Il tema è ampiamente trattato nel saggio “Il capitalismo della sorveglianza” che Shoshana Zuboff, docente alla Harard Business School, ha pubblicato nel 2019 e che è stato tradotto in Italia dalla Università Luiss. Si tratta di uno studio che divulga le acquisizioni scientifiche sulla nuova frontiera del business di quelli che, da colossi della rete, stanno diventando colossi anche del mondo reale: Google, Facebook, Amazon, Microsoft seguiti ormai da numerosi soggetti che hanno fiutato l’affare dei dati personali. Il business è quello dell’acquisizione di dati comportamentali delle persone in carne e ossa che vengono immagazzinati e analizzati da intelligenze artificiali sempre più sofisticate e capaci con lo scopo di vendere spot pubblicitari altamente personalizzati, e che siano quindi i più efficaci possibile per gli investitori. Il tutto è iniziato in rete, con l’indicizzazione del world wide web da parte di Google che ha successivamente cominciato a immagazzinare e far studiare dai suoi algoritmi i dati di navigazione on line di miliardi di utenti, le interazioni sui social media, le foto pubblicate e quant’altro. Poi si è spostato al mondo reale, con l’indicizzazione di città fisiche e interi stati attraverso Google street view: un sistema che incrociato al rilevamento satellitare delle nostre posizioni – ormai diventato un gioco da ragazzi, tanto che è sviluppato pressoché da tutte le app che abbiamo scaricate nei nostri smartphone, cioè nelle nostre tasche – permette di far sapere in tempo reale dove siamo e riesce a inferire sempre più spesso cosa stiamo facendo. Ora questa continua estrazione di dati dalla nostra vita reale esterna si sta spostando al nostro interno: come stiamo, in che umore, con chi interagiamo e come; come rispondiamo a determinati stimoli; qual è la nostra pressione sanguigna, il livello di glucosio nel sangue, di che qualità è il nostro sonno; se soffriamo di celicachia, quanto abbiamo corso stamattina al parco e a quale velocità. Cavallo di Troia di questa rilevazione sono gli assistenti digitali (Alexa e simili) che registrano le nostre conversazioni e le interpolano con i dati che forniamo alle app; il tutto viene immagazzinato e analizzato da potentissimi software allo scopo di studiarci per arrivare a prevedere da un lato, e indurre dall’altro i nostri comportamenti in modo da offrirci la pubblicità giusta al momento giusto e far salire i fatturati di chi quei dati li immagazzina e li studia a favore degli inserzionisti pubblicitari che pagano. Con le smart cities Google e i suoi fratelli stanno ampliando a dismisura la loro capacità di estrazione dei dati dai flussi di cose e persone con lo stesso scopo: arrivare a una predizione sempre più millimetrica delle nostre intenzioni, del nostro essere, per offrirle agli inserzionisti pubblicitari dietro compenso. Le telecamere, sempre più interconnesse, “capaci” e “gestite” da dispositivi forniti dai cosidetti giganti del web offrono uno strumento di estrazione dei dati delle nostre vite che è formidabile. Sembra fantascienza, ma è il presente; è l’attualità di cui si parla poco anche perché siamo occupati a seguire assiomi fondati sulle impressioni di persone in buona fede a cui si mescolano propagandisti con pochi scrupoli. Assiomi tipo: “più telecamere = più sicurezza”, cosa che non solo non è vera, ma può a breve essere rovesciata in minaccia: “più telecamere = meno possibilità di vivere liberamente” a causa di sistemi sofisticatissimi che sanno tutto di noi, a differenza del poco che noi sappiamo di loro.

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