Ci sono così tanti contratti di lavoro stipulabili oggi in Italia che si rischiano le vertigini. A termine, intermittente, di collaborazione, di apprendistato, stagionale, di somministrazione. Quand’è iniziato il processo di diversificazione, intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, questi venivano definiti contratti atipici, come i lavoratori che li avevano firmati: gli atipici, appunto. S’intendeva indicare, con quella definizione, che i lavoratori e i contratti tipici erano quelli a tempo indeterminato e per lo più protetti dall’articolo 18. Si sottintendeva insomma un’eccezione alla regola dell’instaurazione dei rapporti di lavoro come si erano conosciuti fino ad allora, escogitata per venire incontro a esigenze particolari delle imprese.
Oggi un quarto delle persone che lavorano in questo paese ha un contratto a scadenza, tanto che non si parla più di atipici, ché sarebbe come definire insolite le giornate calde in estate. Nel frattempo sono emerse altre definizioni. Sappiamo che esistono i working poor, cioè persone che pur lavorando non guadagnano il sufficiente per mettersi al riparo dalla povertà. C’è la categoria dei sovraistruiti, cioè di chi ha un titolo di studio superiore alle mansioni svolte. C’è la fascia delle persone – soprattutto donne – costrette al part time quando sarebbero invece disponibili a lavorare per più ore perché avrebbero bisogno di maggiori entrate. Si tratta di una serie di definizioni che descrivono inequivocabilmente chi lavora in una posizione scomoda, di ripiego, costretta, e non di rado inadeguata per vivere in maniera dignitosa.
Del resto le statistiche ci raccontano che dal 2008 al 2024 l’Italia è stato il paese del G20 con la maggiore perdita di potere d’acquisto dei salari, e che fatto 100 il salario medio del 2019, oggi in tasca a lavoratori e lavoratrici italiane arriva meno di 90. Si tratta di tutte condizioni che peggiorano ulteriormente se il lavoratore o la lavoratrice ha avuto la (s)ventura di nascere in un paese diverso da quello in cui attualmente vive e paga le tasse (cioè questo, l’Italia) pur non vedendosi riconosciuta la cittadinanza se non dopo tempi geologici.
La progressiva atipicizzazione dei rapporti di lavoro, di cui il Jobs Act è stato il raggiungimento della vetta, aveva sicuramente delle ragioni in esigenze di impresa e di modi di produzione, e anche di vita, che andavano perdendo le rigidità tipiche della fabbrica fordista. A distanza di più di trent’anni però, si può concludere con buona approssimazione che tutto questo ha significato precarizzazione estrema di lavoro e di vite, scaricamento delle disfunzioni di un sistema incapace di innovare sugli ultimi anelli della catena. Alla flessibilità richiesta a chi lavora non è stata riconosciuta alcuna contopartita. Anzi: come si conviene in un rapporto di forza del tutto squilibrato, al mondo del lavoro e alle vite di chi lo popola è stato chiesto via via sempre di più, pena un’ostracizzazione sociale che è diventata la condizione di larghissime fasce di popolazione nonché l’origine di uno sfilacciamento che rischia di minare la nostra stessa Costituzione materiale.
Che ciò non interessi a chi non ha a cuore neanche la Costituzione formale e punta – più o meno inconsapevolmente – alla modificazione di entrambe, la formale e la materiale, non stupisce. Ricamare sofismi sul mondo della produzione rimanendo incollati in un perenne qui e ora che facendo perdere di vista le trasformazioni intercorse nei decenni schiaccia la prospettiva impedendo di contemplare i peggioramenti delle condizioni di chi lavora è dannoso.
Per questo non entreremo neanche nel merito dei referendum sul lavoro e sulla cittadinanza cui siamo chiamati l’8 e il 9 giugno prossimi: il merito è macroscopico. Occorre spostare la bilancia dei rapporti di forza dalla parte di chi lavora. E spesso chi lavora nelle condizioni peggiori è chi non è italiano di nascita. Cinque Sì al referendum significano dire no alla deriva. Provarci non nuoce a nessuno, tranne a chi finge di non vedere o difende gli interessi dei pochi che stanno traendo enormi benefici dalla precarizzazione delle vite di molti e molte.