Una consultazione elettorale offre sempre indicazioni da scorgere: si tratta di voti reali, anche se non ci sarà esito, come nel caso dei referendum di sabato e domenica su diritti del lavoro e di cittadinanza che non hanno raggiunto il quorum. Andremo per punti, perché le indicazioni sono più d’una e non necessariamente collegate.
Primo: per i referendum sui diritti di chi lavora hanno espresso un Sì all’abrogazione di norme ritenute regressive dai promotori del referendum circa 180 mila persone in Umbria, regione in cui però ci sono 290 mila lavoratori e lavoratrici dipendenti. Per cui, anche nell’ipotesi infondata che la platea di coloro che si sono recati alle urne sia stata composta esclusivamente di lavoratori e lavoratrici dipendenti, mancherebbero all’appello 110 mila persone. Approssimando in maniera grossolana se ne potrebbe concludere che almeno la metà – ma probabilmente anche più – delle persone che in questa regione lavorano per tentare di arrivare a fine mese non si sono sentite coinvolte nonostante i referendum proponessero di ripristinare l’obbligo di reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, l’innalzamento dell’indennità per i licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 15 dipendenti, un restringimento della possibilità di ricorso ai contratti a tempo determinato e un maggiore coinvolgimento delle aziende appaltatrici in tema di sicurezza. Ancora, e sempre grossolanamente, ma per farsi un’idea; l’incidenza dei Sì in questa regione pesa quanto il 62 per cento del lavoro dipendente, mentre a livello nazionale la percentuale si alza al 65.
Il dato sullo scarso coinvolgimento del mondo del lavoro va integrato in Umbria con quello sulle condizioni generali di chi lavora. Qui la retribuzione media è inferiore di circa il 10 per cento rispetto alla media nazionale; qui il ricorso ai contratti a tempo determinato incide per il 17 per cento sul totale, mentre a livello nazionale la percentuale si ferma al 14 (e la paga oraria di chi lavora a tempo determinato è inferiore rispetto a quella di chi ha un contratto ha tempo indeterminato). Insomma, le condizioni mediamente peggiori del mondo di chi lavora non hanno portato a un maggiore coinvolgimento. Anzi, sembra abbiano prodotto l’effetto opposto. Sintomo del fatto che, si perdonerà la semplificazione, il mondo del lavoro in Umbria è così frantumato e in condizioni precarie che non ha neanche la forza di coagularsi, in questo momento. E si tratta di una condizione che apre domande abissali.
Passando al referendum sulla riduzione dei tempi di ottenimento della cittadinanza per chi vive e lavora regolarmente in Italia: i Sì ottengono in Umbria un punto percentuale in meno rispetto alla media nazionale. Considerando che la norma attualmente in vigore rende più difficile l’ottenimento della cittadinanza oltre che per chi paga le tasse lavorando regolarmente in questo paese, anche per bambini, bambine, ragazze e ragazzi che frequentano regolarmente la scuola e le polisportive e parlano i dialetti locali, non si fa fatica a considerare regressivo l’esito della consultazione.
I referendum sul lavoro hanno ottenuto in Umbria 5 mila voti in più rispetto a quelli ottenuti dai partiti che li appoggiavano nelle elezioni politiche del 2022. Tra i comuni più popolosi, quello di Corciano è quello con la forbice più ampia: lì i Sì all’allargamento dei diritti di chi lavora sono stati circa l’8 per cento in più rispetto ai voti ottenuti da Pd, Avs e M5S nel 2022. A Foligno la differenza sfiora il 6 per cento, mentre a Perugia è al 4,2 per cento. Si tratta delle città in cui – a giudicare da questi dati – il centrosinistra che parla di cose reali può ambire a un consenso elettorale più ampio di quello raccolto dai partiti che lo rappresentano. A questo proposito può essere di qualche interesse notare che a Scheggino, feudo della famiglia Urbani che da lì ha fatto spiccare il volo a due delle sue first ladies nell’ambito del centrodestra, i Sì ai referendum sul lavoro sono stati del 42 per cento superiori ai voti raccolti dal centrosinistra nel 2022. O come a Montefalco, patria della ex presidente di regione, la leghista Donatella Tesei, i Sì sono stati 115 in più della somma dei voti raccolti da Pd, Avs e M5S due anni e mezzo fa. La stessa forbice si è registrata a Nocera Umbra, centro governato dal leghista Virginio Caparvi. Cosa che non succede a Gubbio, unico tra i maggiori dieci comuni umbri in cui i Sì al referendum sul lavoro sono stati inferiori ai voti raccolti da Pd, Avs e M5S alle ultime elezioni politiche. Il comune dell’alta Umbria ha anche un’altra particolarità: è quello tra i più popolosi a far registrare lo scarto massimo tra i Sì ai diritti di cittadinanza (4.750) e i voti raccolti dal centrosinistra alle Politiche del 2022 (7.109). E dire che tra i comuni dell’Umbria con più residenti, Gubbio è quello con la minore incidenza di popolazione straniera residente: 6 per cento, la metà della media regionale.
Quello della cittadinanza è il tema sul quale forse si misura il potenziale regressivo maggiore, in Italia e ancor più in Umbria: a fronte di una diminuzione di nascite e di una popolazione straniera in larghissima parte integrata, si registra un’alzata di muri che porta a una forbice del 26 per cento tra i voti raccolti dal centrosinistra nel 2022 (in Umbria più di 175 mila) e quelli per l’accorciamento dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza: meno di 130 mila al referendum di sabato e domenica scorsi. Anche in questo caso, si aprono domande abissali sul livello di sfaldamento di una popolazione che appare incapace da un lato di reclamare diritti per sé, e dall’altro di riconoscere quelli che essa detiene a chi vive gomito a gomito con lei.