Giacomo Matteotti con il figlio Giancarlo nel 1920
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Il filo che lega Matteotti e l’Umbria

 

Questo articolo è stato pubblicato anche nel numero di giugno del mensile l’altrapagina

Ricordo bene Mario Villarini, la zia Annetta e i figli Franco, Elda, Alberto: abitavano in un appartamento al primo piano dell’abitazione umbertidese in via Roma dove, all’epoca, abitavo con la mia famiglia. Mario è uno dei quattro fratelli di quel Domenico che segnò la targa della Lancia K in via Pisanelli a Roma, ed è proprio lui che mi ha parlato (ancora ero un bambino) per la prima volta di Matteotti. Anche lui, socialista, si racconta che, durante il ventennio fascista, tenesse le tasche dei pantaloni riempite con qualche manciata di cenere da lanciare in viso a qualche malintenzionato nell’eventualità di incontri non graditi. Macchinista della Ferrovia centrale umbra, veterano della banda musicale cittadina, amava lucidare il suo clarino come un trofeo. Domenico nella banda suonava i piatti, l’altro fratello, Natalino, era appassionato di violino, ultimo della nidiata era Francesco (Checco). Melomani dell’opera lirica, i Villarini andavano orgogliosi dell’amicizia con Beniamino Gigli, allora proprietario della “tenuta di Montecorona” proprio a due passi da Umbertide, la stessa che più tardi divenne azienda agricola degli Agnelli.

Provo a tuffarmi telefonicamente nel grappolo della famiglia Villarini. Chiamo Giuliana, Stefano, Nora. Riesco a contattare Massimo e Cristina a Roma. È Cristina a raccontarmi che il nonno Domenico aveva conosciuto Ester Erasmi, sua futura moglie, quando a Umbertide lavorava presso la famiglia Burelli. Nata nei primi anni del ‘900, Esterina era originaria di Comunaglia in zona Spedalicchio, Calzolaro e Trestina. Dopo aver combattuto durante tutta la Prima guerra mondiale e aver riportato una ferita al polmone, è con Ester che Domenico Villarini si trasferisce a Roma dove insieme diventano i portieri del palazzo di via Stanislao Mancini 12, vicino alla residenza di Matteotti. Massimo mi ricorda che suo padre Natalino, arrivato a Roma a quindici anni e che sarebbe diventato un sarto rinomato, con i figli di Matteotti giocava a Villa Borghese. Mi ripete Cristina di essere molto orgogliosa della storia dei suoi nonni: «All’inizio fu promesso loro un lavoro facoltoso, la propretà di una casa e molti soldi pur di non inoltrare la denuncia e quindi render noto il numero di targa della Lancia K. Vista l’intransigenza del nonno, questo nessuno lo ricorda – sottolinea Cristina – Domenico fu, in seguito, sonoramente malmenato insieme alla moglie che pure era in attesa di un figlio».

Vengono ricordati integerrimi e nello stesso tempo allegri e burloni i Villarini. Come quella volta che cosparsero di peperoncino tutti i boccali degli strumenti a fiato della banda musicale. Un’altra volta, doveva arrivare il vescovo, il parroco raccomandò di tenere d’occhio un membro della banda famoso per essere un bestemmiatore seriale. «Stia tranquillo», promisero i fratelli. Durante il pranzo Domenico si mise seduto proprio di fronte al personaggio segnalato e comiciò a fissarlo tutto il tempo senza mai abbassare lo sguardo. Continuò a fissarlo insistentemente fino a quando il malcapitato sbottò: «Si può sapere cosa vuoi ?!!!» e disnoccolò una serie di bestemmie irripetibili proprio alla presenza del vescovo. Amen! Ricorda ancora Cristina: «Quando cinquanta anni fa andai a vedere il film su Matteotti, quello con l’attore Franco Nero, una volta uscita dalla sala cinematografica, ero ancora una ragazzina, il babbo Giuseppe mi fece subito notare che il nonno ‘Menchino’ (appellativo familiare per Domenico, ndr) non era affatto come nella pellicola ma alto e, all’epoca dei fatti, ancora molto giovane e aitante».

Domenico Villarini (a sinistra) con il figlio Giuseppe
Domenico Villarini, a sinistra, con ol figlio Giuseppe

Il 10 giugno

Ma come andarono le cose, quel 10 giugno del ‘24? È un caldo pomeriggio. L’onorevole Giacomo Matteotti esce dalla sua abitazione di via Pisanelli n.40 verso le 16 e 30. È diretto a Montecitorio per preparare, in biblioteca, il suo prossimo intervento in Parlamento. Senza cappello, in abito chiaro raggiunge il Lungotevere. C’è un’auto ferma con alcune persone a bordo. La stessa che i coniugi Villarini avevano notato aggirarsi già la sera prima nei paraggi. Matteotti vede venirgli incontro due energumeni. Gli stanno addosso. Si difende, ne respinge uno buttandolo a terra, il secondo però gli è sopra. Altri arrivano e infieriscono con calci. Giacomo è colpito con un pugno alla tempia. Tramortito viene trascinato dentro la Lancia K. Alcuni passanti sentono le grida. L’avvocato Giovanni Gavanna che si affaccia alla finestra del suo studio, richiamato da tanto clamore, vede cinque uomini che pestano qualcuno che si tenta di liberarsi energicamente. Scende di corsa le scale, quando arriva in strada l’auto è già sparita. Assiste alla scena un ragazzo di dieci anni che lavora al negozio di vini e oli e che conosce bene Matteotti. «Sparisci», gli urla uno degli uomini che poi lo schiaffeggia. Matteotti in auto cerca di divincolarsi, con un calcio rompe un vetro. Per mascherare le urla l’autista suona ripetutamente il clacson. Giacomo continua a gridare. Riesce a lanciare fuori dal finestrino il tesserino da parlamentare che porta sempre in tasca. La lama di un pugnale lo colpisce sottobraccio e al torace. Il sangue a questo punto è ovunque.

La denuncia dai banchi del Parlamento

L’ultimo discorso in Parlamento Matteotti lo pronuncia il 30 maggio 1924, a commento delle elezioni politiche. Ricorda le milizie armate dinanzi ai seggi di città e soprattutto di campagna, l’impossibilità per i candidati di opposizione di tenere comizi che, dati alla mano, ha riguardato più del 60 per cento delle manifestazioni politiche. Denuncia con puntigliosa precisione il fatto che i rappresentanti di opposizione sono stati addirittura esclusi dai seggi durante lo spoglio delle schede in numerosissimi casi. Dove si è potuta esercitare una certa libertà,commenta ironicamente Matteotti, le opposizioni hanno prevalso. Alla conclusione del suo intervento – a causa delle molteplici e plateali interruzioni, durato più di un’ora e mezzo – chiede l’annullamento delle elezioni. La risposta rabbiosa di Francesco Giunta, segretario del partito nazionale fascista (Pnf) scatena violente reazioni. La Stampa titolerà «Uragano infernale», e si sottolineranno più le baruffe in aula che le denunce di brogli. Giacomo Matteotti continua il suo lavoro e quel 10 giugno si sta recando in Parlamento per lavorare sulla vicenda Sinclair, l’azienda coivolta nello scandalo petrolifero che riguarda le concessioni alla raffineria di Trieste. Risultano implicati il deputato fascista Ettore Rosboch e i fratelli Mussolini. A confermare l’ informazione è il quotidiano laburista britannico Daily Herald del 17 giugno 1924, che racconta anche di loschi giochi d’azzardo.

Il lavoro dei sicari

Ecco il manipolo di sgherri scelto per l’operazione della Ceka fascista ai diretti ordini di Giovanni Marinelli, Cesare Rossi e del sottosegretario agli interni Aldo Finzi. Americo Dumini, trent’anni, capo del manipolo. Albino Volpi, trentacinque anni, membro del Fascio milanese. Giuseppe Viola, ventotto anni, del gruppo arditi di Milano. Augusto Malacria, trentasei anni, ex capitano dell’esercito. Amleto Poveromo, trentuno anni, macellaio. Si trovano a Roma dal 26 maggio all’Hotel Dragoni, non lontano da Palazzo Chigi, aspettano l’ordine che arriva per quel 10 giugno. Si verifica una strana combinazione. La sorveglianza alla casa di Giacomo Matteotti, che lì soggiorna con la moglie Velia e i tre figli Giancarlo (sei anni), Matteo (tre), e Isabella (due), quel giorno, da parte delle forze dell’ordine, è sospesa. Quando la sera Velia, non vedendo tornare il marito, si allarma e chiede informazioni agli amici e alle autorità di polizia la Lancia K è già rimessa in ordine e parcheggiata nel cortile del Viminale. Viene riconsegnata a Filippo Filippelli, direttore del Corriere Italiano,che aveva provveduto al noleggio. Il cadavere di Giacomo Matteotti è abbandonato tra Sacrofano e Riano, lungo la statale Flaminia. Due carrettieri ritrovano in strada il tesserino ovale di cuoio rosso numero 326 del parlamentare. L’addetto al garage riconosce Dumini. Il numero di targa dell’auto consegnato dai coniugi Villarini alle autorità fa in modo che per la polizia sia relativamente facile risolvere il mistero del sequestro. Sbrigative fonti governative fanno intanto circolare la voce che Matteotti può essere fuggito in Austria: viene addirittura rafforzata la vigilanza alle frontiere. Cori fascisti schiamazzano sotto le finestre di via Pisanelli 40 «Con la carne di Matteotti faremo salsicciotti».

La notizia di Matteotti assassinato scuote l’opinione pubblica. Ha trentanove anni quando viene ammazzato. Il governo, dopo molte messe in scena, continua a raccontare che verranno fatte indagini per accertare la verità e il 25 giugno 1924 ottiene di nuovo la fiducia del Senato con 225 voti a favore, 21 contrari e 6 astensioni. Il 26 agosto 1924 un carpentiere, in una condotta a fianco della strada di Sacrofano, trova la giacca di Matteotti. I pantaloni tagliati in cinque pezzi già sono stati ritrovati nel bagagliaio dell’auto di Dumini mentre sta allontanandosi da Roma. Il carabiniere Ovidio Caratelli scopre un cadavere irriconoscibile mentre passeggia con il cane. Solo il dentista di Matteotti sarà in grado di identificarlo.

Intanto c’è l’Aventino delle opposizioni. Mussolini in uno dei suoi proclami al Parlamento potrà affermare pomposamente il 3 gennaio 1925: «Se il fascismo è una associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere». È rimosso e promosso il magistrato che ha raccolto le prove. Mauro Del Giudice infatti diventa procuratore generale presso la Corte di Appello di Catania. Il processo, per sopraggiunti gravi motivi di sicurezza, viene spostato da Roma alla Corte di Assise di Chieti dal 10 al 24 marzo 1926. Domini, Volpi e Poveromo vengono condannati a cinque anni e venti giorni di reclusione per l’omicidio. L’amnistia li vedrà uscire di prigione due mesi dopo. Assolti per non aver commesso il fatto Viola e Malacria. Immediatamente scagionati in istruttoria il resto della crema della Ceka fascista: Cesare Rossi, Giovanni Marinelli, Filippo Panzeri, Aldo Putato e Otto Thierschadil.

Velia Titta

Giacomo conosce la donna della sua vita, che lo renderà padre di tre figli, durante una villeggiatura a Boscolungo, in provincia di Pistoia. È il 1912. Velia studia e prende la licenza alla Scuola Normale di Pisa. Si interessa di letteratura italiana e straniera, giovanissima scrive e pubblica poesie. La corrispondenza e gli scritti raccolti dal prezioso lavoro di Stefano Caretti in ben tredici volumi ci regalano un Giacomo e una Velia, anche se diversi nel carattere, molto intimi e innamorati. Si sposano nel 1916 in Campidoglio. Lei vorrebbe una cerimonia religiosa, solo la sera prima di quell’8 gennaio, accetta il rito civile. Fervente pacifista Giacomo è arruolato e subito individuato come pericoloso agitatore politico e quindi allontanato dal suo Polesine. Spedito in un campo militare di disciplina a Messina, verso i compagni d’avventura svolge una preziosa attività di alfabetizzazione. La moglie Velia, in questa lunga e forzata permanenza, andrà qualche volta a trovarlo. Matteotti torna alla vita civile soltanto nel 1919. Intanto, il 19 maggio 1918, era nato il primogenito Giancarlo. La famiglia cresce quando arrivano Matteo, nel 1921, e Isabella l’anno dopo.

Quanto la ferocia del regime fascista si sia abbattuta su Matteotti da vivo, sul suo cadavere e su tutti i suoi familiari ha messo in ombra la persecuzione strisciante ai danni dei suoi familiari e delle persone che gli furono vicine. Fu perseguitato chi provvide a procurare una tomba dopo la scoperta del cadavere. Con il compito di impedire che la salma venisse portata all’estero, la casa della famiglia Matteotti si riempì di spie, tutori falsi e poco affidabili amministratori: tutti impegnati, dopo la morte dell’ottantenne madre di Giacomo, in combutta con istituti bancari, lavorarono per dissipare le disponibilità economiche di cui la famiglia Matteotti disponeva da sempre. Quando il figlio Giancarlo decide di iscriversi al Liceo potrà farlo solo assumendo il cognome della madre.

Le Leghe del Polesine e il congresso di Livorno

Matteotti è eletto in provincia di Rovigo alle elezioni amministrative del 1920. I socialisti contano 38 seggi su 40. Si tratta dello stesso Consiglio provinciale che il 6 maggio del 1921 verrà sciolto per decreto con la motivazione che due sedute sono andate deserte. La causa? Alcune stravaganti intimidazioni degli arditi. Al momento del trionfo elettorale in Polesine si contano 450 leghe. A Ferrara i socialisti hanno la maggioranza nell’80 per cento dei comuni. Innumerevoli sono le occasioni in cui Matteotti denuncerà una infinita serie di violenze proprio in Polesine. Sette lavoratori uccisi, 65 feriti gravi, 400 feriti per aver subito bastonature, 127 case private e sedi danneggiate. Sul fronte fascista si contano 2 morti e 15 feriti.

Il congresso socialista, inizialmente previsto a Firenze, venne spostato a Livorno dal 15 al 21 gennaio 1921 perché l’organizzazione dei portuali era ancora in grado di garantire lo svolgimento dei lavori congressuali nonostante il preoccupante clima di repressione in atto. È Angelo Tasca a definire Mussolini un capitano di ventura ormai passato al campo opposto e a riflettere sul fatto che la borghesia industriale e agraria guarda a lui e ai sui arditi per risolvere i problemi della governabilità. Commenta ancora Tasca: «Non è il fascismo che ha vinto la rivoluzione, è l’inconsisteza della rivoluzione che provoca il sorgere del fascismo». Gramsci e i suoi compagni criticano un partito socialista che non sa cogliere il portato della rivoluzione d’ottobre. Severo è il giudizio sulla capacità di mobilitare le masse senza però riuscire ad affrontare fino in fondo l’elemento strategico che punta ad instaurare una società socialista. Ai dirigenti è addebitato un atteggiamento di rassegnazione e che di fatto coinvolgerà anche la figura politica di Matteotti. Più tardi, proprio lui, verrà imbalsamato da inconsistenti partiti socialdemocratici. Al congresso di Livorno Matteotti è presente solo le prime tre giornate. Deve correre immediatamente a Ferrara. È arrivata la notizia che sono stati arrestati il sindaco socialista, Temistocle Bogianckino, e il segretario della Camera del Lavoro Gaetano Zirardini. A lui il compito di gestire la complicata situazione creatasi in città.

Alla memoria e alla figura di Giacomo Matteotti finiscono per non rendere merito neanche le giustificazioni di quei dirigenti del vecchio Pci che, abbandonato il progetto di modificare lo status quo di questo sistema neo liberista, adesso cominciano a sentirsi in debito di riconoscenza. Ci piace di più ricordare il sorriso disincantato e ironico di un Vittorio Foa seduto in cerchio alle nostre riunioni studentesche. Rammentava, nelle chiacchiere a quattrocchi, che proprio l’assassinio di Matteotti rappresentò il discrimine politico della sua adolescenza.

Nella foto di copertina, Giacomo Matteotti con il primogenito Giancarlo nel 1920 (foto da wikimedia commons)

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