Il catalogo di una mostra non può essere solo il ricordo di qualcosa appena visto ma un testo sul quale poter ritornare nel tempo con il quale si fa il punto su un movimento artistico o su artisti di cui si è trattato, come fa quello curato da Luca Pietro Nicoletti e Alessandro Sarteanesi sulla mostra di Palazzo della Penna “Afro, Burri, Capogrossi. Alfabeto senza parole”. Tre artisti che passando all’arte informale non scelsero il semplice abbandono della forma ma una rappresentazione diversa della realtà iniziando a dipingere qualcosa che c’era ma che ancora pochi vedevano e, grazie a quella decisione, segnarono l’arte italiana andando ben oltre i suoi confini: Afro creando un equilibrio tra colore e gesto, Burri con la materia che nelle sue mani sembra diventare stesure di colore, Capogrossi elaborando un personale alfabeto visivo.
Una scelta accomunata non da una comune militanza artistica – il Gruppo Origine cui aderirono Capogrossi e Burri ebbe vita effimera e poco significativa – ma dalla coincidenza di scelte individuali di cui il catalogo dà conto con saggi, documenti e, naturalmente, con la documentazione fotografica di quello che è stato fatto ed esposto. Dov’è interessante poter leggere le considerazioni di Marcello Barison, Moira Chiavarini, Tommaso Mozzati, storici e storiche dell’arte che osservano quella stagione non con l’occhio novecentesco di chi ha vissuto più o meno da vicino quell’epoca ma con quello di chi non può che osservarla e studiarla considerandola oggetto di studio del secolo scorso.
Letto in questa veste il catalogo conferma che la strada presa da Palazzo della Penna di essere un centro dell’arte contemporanea non è stata fatta per mostrare qualcosa ma per produrre cultura e, facendolo, prendersi cura di una città e di una regione. Perché la piccola Umbria non è solo Assisi, Perugino e Pinturicchio; anche sulla contemporaneità ha da dire e fare più di quanto s’immagini se venisse guardata nella sua unitarietà e non per frammenti. Da Città di Castello con Burri, facendo un giro intorno al Trasimeno e Brufa, Beuys e Burri a Perugia, De Dominicis a Foligno, Beverly Pepper a Todi, le sculture di Spoleto, fino a Terni con l’obelisco di Pomodoro e i teneri magici quadretti del ciabattino Orneore Metelli c’è un filo che scorre e giustifica fondate speranze sulla contemporaneità.
Perugia – lo confermano Palazzo della Penna, la mostra e il suo catalogo – è uno dei luoghi dove è possibile far brillare una fiamma a favore di ciò che nell’arte emerge dal presente. Farlo con continuità e coerenza sarebbe, rispetto al conformismo e alla crescente normalizzazione, una trasgressione capace di incanto, cultura, economia, vitalità, sorprese. A tale proposito risulterebbe significativo, per esempio, che Palazzo della Penna riflettesse sullo spoletino Leoncillo. Uno degli scultori più rilevanti del Novecento europeo ha bisogno che la sua regione gli dedichi un’importante mostra che lo sveli definitivamente non solo agli addetti ai lavori e agli appassionati d’arte ma – sorprendendolo con ciò che forse non si aspetta – al pubblico più vasto delle mostre e del movimento culturale, turistico, economico che intorno a esse si crea.
In fondo, le mostre e i cataloghi che le completano anche a questo servono: a suscitare simili suggestioni e riflessioni su quello che potrebbe essere: a fare arte, a fare cura, a fare città.