Lo studio di Giorgio Morandi fotografato da Berengo Gardin
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La stanza di Morandi

 

Berengo Gardin è un fotografo la cui caratteristica è l’indagine sociale, al punto che è proprio lui a sottolineare che il suo «lavoro non è assolutamente artistico ma sociale e civile». Tant’è vero che di lui si ricordano il libro fotografico sull’esperienza manicomiale di Basaglia o le foto-denuncia delle grandi navi da crociera sul Canal Grande di Venezia. Sorprende, quindi, l’aspetto lirico e intimo delle foto esposte a Perugia, alla Galleria Nazionale dell’Umbria. scattate nello studio bolognese di Giorgio Morandi in via Fondazza 36 che gli chiesero di fotografare prima che venisse smantellato (la mostra, curata da Alessandra Mauro, è visitabile fino al 28 settembre). Cosa che Gardin ha fatto con pudore perché quello non era l’atelier di un pittore ma uno spazio personale denso di significati: la sua camera da letto dove sono nati i suoi capolavori e dove Gardin è entrato in punta di piedi soffermandosi anche sugli aspetti privati come il cappello appoggiato su una sedia ai piedi del letto, il letto stesso, e naturalmente sugli oggetti che Morandi dipingeva dopo aver meditato a lungo su di essi lasciando su un foglio di carta i segni della loro posizione per trovare prima di dipingere la collocazione esatta corrispondente al suo pensiero.

Ma cosa succedeva in quello spazio che durante il suo viaggio esistenziale in una stanza ha offerto a Gardin la scoperta di un ripostiglio tornato alla luce poco prima del suo arrivo? Bisogna immaginarlo, Morandi, con il suo sguardo penetrante osservare gli oggetti disposti sul tavolo. Alcuni reali, altri di latta che si era fatto costruire o bottiglie dipinte a neutralizzarne le trasparenze per farli diventare forme che sulla tela acquisiscono addirittura una valenza architettonica dentro la quale cercare l’essenza delle cose.

Perché la ricerca di Morandi non è la riproduzione del reale, anche se lui rivendicava di essere pittore realista – «dipingo e incido paesi e nature morte», diceva di sé – ma una elaborazione mentale condotta quasi sempre in quella stanza-camera da letto-studio dov’è scorsa la sua vita appartata dedita al dipingere. Attività che svolgeva non vestito da pittore, come potremmo immaginare, né come una persona che rimanendo a lavorare in camera sua non deve badare alla forma e a cosa indossa, ma come un medio borghese che vive in un appartamento dei portici bolognesi, si sveglia, si alza e, come ha sempre fatto, si veste in giacca e cravatta per recarsi al lavoro. Lavoro svolto prevalentemente nella stanza di via Fondazza a produrre le nature morte che il grande storico dell’arte Roberto Longhi riteneva essere opera del più grande pittore del Novecento italiano. La cui assenza aleggia nelle foto di Garin, catturata dallo sguardo con il quale ha osservato quella stanza impregnata della memoria e della complessità di un protagonista dell’arte del Novecento. Assenza-presenza che non può essere disgiunta dalle sue nature morte sempre uguali e sempre diverse, silenziose e dimesse, i cui colori velati sembrano granire da un moto interiore che sta fra ciò che c’è e ciò che non c’è come dimostrano i due prestiti del Museo Morandi: una Natura morta del 1951, e un’acquaforte del 1930 presenti in questa piccola mostra fotografica di 21 scatti a svelare quello che nasceva nella stanza di Giorgio Morandi e che Garin evoca con le sue foto. F

otografie dello studio “cella francescana” di Morandi che hanno un effetto del tutto particolare esposte a Perugia alla “Camera oscura” della Galleria Nazionale dell’Umbria se si pensa che ci si trova nel Palazzo dei Priori a poca distanza dalla stanza di Capitini, anch’essa richiamante una cella francescana: due persone diverse, Morandi e Capitini, nell’impegno sociale e politico ma simili per il rigoroso stile di vita e per la loro stanza così esistenziale che la magia dell’arte, in questo caso fotografica, evoca e avvicina.

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