Temi

Ci vorrebbe un ministero per il Futuro

 

Il 6 dicembre il Censis ha presentato, come ogni anno, il suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Un’informazione lì contenuta sembra essere passata un po’ in secondo piano, ed è quella relativa allo stato di salute mentale dei giovani. I numeri non parlano mai da soli, ma certamente aiuano a capire la realtà; quindi vediamoli, premettendo che provengono da una specifica indagine effettuata appunto dal Censis.

Tra i 18-34enni italiani, il 51,8 per cento soffre di ansia o depressione, il 32,7 di attacchi di panico e il 18,3 per cento ha disturbi del comportamento alimentare (come anoressia o bulimia); il 56,5 per cento si sente solo e il 58,1 per cento si sente fragile. Si tratta, si legge, di stati d’animo o sintomi legati all’incertezza, alla «paura di non farcela», alle «difficoltà sperimentate nel reggere il confronto con i pari». Per cui, il 29,6 per cento è in cura da uno psicologo e il 16,8 per cento assume psicofarmaci o sonniferi.

Una tabella del Censis con dati suol disagio giovanile

I valori che abbiamo visto sono tutti ampiamente al di sopra della media nazionale, tranne nel caso del consumo di farmaci. Se la rilevazione è corretta, vuol dire che, alla grossa, un giovane su due non sta psicologicamente bene. Tuttavia, scrive il Censis, c’è anche una quota «silenziosa» di 18-34enni che studiano, lavorano, sono soddisfatti della propria vita e «mettono in gioco strategie individuali di restanza o rilancio per assicurarsi un futuro migliore, in Italia o all’estero». E qui vengono snocciolati dati e fenomeni in teoria più rassicuranti: i laureati che aumentano, il fatto che quasi il 20 per cento dei dirigenti di aziende private e amministrazioni pubbliche ha meno di 40 anni, i quasi 200 mla titolari e soci d’impresa con meno di 30 anni, le 2.208 start up innovative (in cui la partecipazione dei giovani è maggioritaria), i capi di aziende agricole under 40 (più di 100 mila), i ricercatori universitari che aumentano anche loro. Il Censis ne conclude che sarebbe sbagliato «partire dai dati sul disagio per dipingere nuove generazioni fatte esclusivamente di giovani soli, fragili, impauriti, che non hanno fiducia in se stessi e diffidano degli altri, che hanno bisogno del supporto di specialisti o di farmaci per affrontare la vita quotidiana». Ma questo tipo di giovane esiste: non sarà esclusivo, ma è molto molto presente (sempre stando all’indagine).

Ognuno potrebbe dare una risposta alla domanda come mai? Contano gli effetti della pandemia, senz’altro, arcinoti. Conta anche questo brutto periodo fatto di guerre, crisi economiche, caos (qualcuno parla di policrisi); l’inflazione e gli effetti sui redditi delle famiglie in cui i giovani sono inseriti o che stanno formando o che magari non possono formare, proprio per le risorse materiali basse di cui dispongono; e quindi la precarietà, non solo lavorativa, ma proprio esistenziale, che ti fa sentire sempre sull’orlo di qualcosa di non bello; l’uso prolungato di social, tecnologie e strumenti informatici di vario tipo, che possono amplificare percezioni ed emozioni negative; le pressioni sociali e culturali che i giovani subiscono, in ambito scolastico e lavorativo (e anche relazionale), con le aspettative che salgono in concomitanza con il senso di inadeguatezza. E poi i cambiamenti biologici e i fattori più strettamente genetici, certo, che ci sono sempre stati e contribuiscono a rendere quella giovanile una condizione perennemente soggetta a disagi, tant’è che in sociologia e psicologia ci sono, da sempre, specialisti in questo campo. E mettiamo anche che parlare di salute mentale, tra i giovani, è sempre più sdoganato, come si dice, per cui il fenomeno emerge anche perché è via via sempre più facile (meno difficile) ammettere di avere problemi di tipo psichico.

Ma c’è di più. Frasi come «dipende solo da te», «puoi essere ciò che vuoi», «se ce la metti tutta, ce la fai», rivolte a tanti ragazze e ragazzi suonano molto di beffa, se non di scarsa empatia e capacità di capire, quando non di insulto. Perché hanno a che fare con una dimensione che riguarda sì, tutti, ma i giovani di più: quella del futuro, del domani, dell’avvenire, o come vogliamo chiamarla. Di ciò che sarà, e che troppe volte è visto con tanta paura o con un’insopprimibile incertezza, soprattutto da chi è più giovane. Il futuro è diventato una minaccia, si sente dire e si legge sempre più spesso; ed è diventato più nebbioso, più difficile da decifrare, da individuare, anche da sognare.

Il rischio di cadere nella retorica è davvero dietro l’angolo, ma quello del domani è un tema, troppe volte messo alla berlina sia nel dibattito pubblico, sia nelle politiche concrete che vengono messe in atto. Prevale il brevetermismo: si guarda appena più in là, a pochi passi, a pochi giorni o addirittura ore di distanza. Pensare e agire in lungo termine è visto come un lusso. Eppure, è una necessità umana: gli esseri viventi, diceva Appadurai, hanno sempre immaginato e ipotizzato il divenire, il cosa sarà e succederà nel tempo che verrà; perché hanno bisogno di stabilità: non esistono, non possono esistere società che non pensano al domani.

Oggi il futuro è nella migliore delle ipotesi molto, ma molto incerto. Tenendo conto di questo e degli altri fattori a cui abbiamo accennato, e anche dei soggetti resilienti, attivi e “sani”, come pretendere che i giovani stiano mediamente bene mentalmente, siano stabili, fiduciosi, in equilibrio, ottimisti, magari spensierati e, in una parola, felici? Perché esiste il ministro o l’assessore al bilancio, alla casa, alla sanità, alle politiche sociali e non quello al futuro?

Foto da pickpik.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *