Paolo Benvegnù
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L’abbraccio a Paolo Benvegnù

 

Questo articolo può essere letto in combinato disposto con quest’altro, anche se non ne costituisce né la prosecuzione né l’origine.

È come se si fosse resa visibile in superficie una terra prima sommersa, domenica scorsa, 19 gennaio, alla commemorazione per Paolo Benvegnù, il cantautore che ci ha lasciato l’ultimo giorno del 2024. Era composta da quel cordone di persone che lentamente, in maniera puntiforme si sono messe in coda davanti al Teatro del Pavone, nel cuore di Perugia, la città dove Benvegnù viveva insieme alla compagna e alla figlia. Ben prima che le porte del teatro si aprissero quel cordone era diventato un lembo che si srotolava per centinaia di metri, fino a piazza Italia, imponendosi alla vista. Una manifestazione silenziosa.

Andrea Franchi, una delle decine di persone che hanno portato il loro omaggio, e soprattutto uno che ha condiviso un importante pezzo di percorso con Benvegnù, ha ricordato queste sue parole: «Noi non abbiamo un pubblico, abbiamo dei privati». Una sottolineatura dell’unicità dell’umano che suona come una diffida ad agglomerare. Eppure, nella loro unicità, le molecole che si sono legate a costituire quel lembo hanno fatto emergere una terra così dimenticata da apparire inesistente. Una terra che nei diversi segmenti ha una differente composizione chimica, ma condivide dei frammenti.

Per comprendere la natura dei frammenti condivisi si può fare riferimento alle parole di un’altra persona giunta a portare il suo omaggio, il manager dell’artista: «Non è gratis essere Paolo Benvegnù», ha detto. Il biglietto che si paga è quello dovuto per rimanere integri e rispettosi di se stessi in una corrente che travolge, privilegiando la semplificazione e la ricerca parossistica dell’utile sempre schiacciato nella sua variante economica.

L’opera di Paolo Benvegnù è un caleidoscopio di grazia in cui convivono la ricerca dell’assoluto e l’invettiva, la poesia che dà vertigini e la sofisticatezza musicale, la voce carezzevole e il tentativo di dare un’anima anche alle cose. Troppo, per essere affrontato in un piccolo scritto come questo. Ma c’è un lato che vale la pena estrapolare ai fini di quello che si sta tentando di affrontare qui. È questo: in Benvegnù la piena consapevolezza della finitezza umana e della impossibilità di decifrare l’infinito che ci si para davanti non si fa rinuncia ma è semmai motore per tentare di affinare uno sguardo e una sensibilità, anche se si sa che né sguardo né sensibilità diventeranno mai sufficienti, perché è la ricerca il senso. È un percorso impervio già di suo, che nel reale tracotante fatto quantità a prescidere, di concretezza spesso così sguaiata da diventare inumana («Restate a terra, c’è un uomo in mare», canta tra le innumerevoli altre cose Benvegnù) diventa quasi proibitivo.

Il lembo di terra emerso domenica pomeriggio nel cuore della città che Benvegnù ha adottato testimonia l’esistenza di un reale differente, che rischia di affogare nell’alta marea provocata dall’insolenza del semplicismo che ha mezzi e risorse per raccontarsi in una autocelebrazione quotidiana, ingigantendosi in una misura che lo fa apparire inversamente proporzionale al proprio contenuto di umanità, e imbellettandosi per celare mostruosità. Questo reale diverso è composto di tanti e tante privati e private che declinano l’antisemplicismo in chissà quanti modi e scontando chissà quante lacune. Eppure sono uniti e unite dal cercare qualcosa che non sia solo quantità, tendono ad accettare la sfida di tentare di spiegare il senso inafferrabile delle cose pur sapendo che non vi si riuscirà. In una contraddizione perenne, fatta di inciampi, debolezze e biglietti da pagare.

Che tutto questo sia emerso, contribuisce ad arricchire un reale raccontato come un tutto che è invece assai parziale, nonostante la sua pretesa totalizzante.

Foto dal profilo Flickr di Sonia Golemme

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