Un carro armato distrutto a Bucha, Ucraina. Foto Reuters di Alex Kent tratta dal profilo Flickr del Parlamento della Repubblica d’Irlanda
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Contro la brutalità semplificatrice della guerra

 

Nella corsa sfrenata alla banalizzazione crescente della complessità contemporanea a uso e consumo di un elettorato che chiedendo chiarezza riceve mistificazione e pretendendo soluzioni si trova a naufragare tra i marosi della propaganda più sfrontata, anche la guerra, mai come oggi permanente e diffusa al punto di aver messo all’ordine del giorno mondiale la necessità di un riarmo generalizzato, è entrata a pieno diritto nel calderone imperante della comunicazione comprensibile e del significare masticabile.

Anche la guerra, e con essa giocoforza la pace, che viene sempre e comunque dopo le ragioni della guerra stessa invece di precederle e sterilizzarle, è figlia dell’inevitabilità, non è prodotto delle logiche perverse e incrociate dei contendenti, ma, quale che sia la sponda del fiume da cui la si osservi, conseguenza dei comportamenti sciagurati dell’altro, che altro non è se non il male assoluto. Questa prospettiva, fondata sulla demonizzazione di un nemico le cui azioni spingono la controparte a rispondere, ha come sua premessa e come sua logica finale il vicolo cieco dell’impossibilità dell’alternativa al confliggere. Non c’è deterrenza che regga, la guerra, nella sua potenza istituzionale economica e politica, continua a dettare tempi e ritmi dell’esistenza contemporanea. Non c’è analisi in grado di bandirla visto che agli occhi dei belligeranti e del sistema comunicativo a loro supporto, sia esso di propaganda nelle autocrazie che di informazione nelle democrazie, la guerra rimane un male non voluto, se non dal contendente, ma indispensabile.

C’è sempre chi si deve difendere da qualcuno che attacca, non c’è mai qualcuno che attacca se non per ragioni preventive riconducibili alla difesa, alla risposta dovuta di fronte alle provocazioni altrui. Insomma il cane che si morde la coda roteando instancabile su se stesso è esempio classico che non dà bene l’idea, visto che i cani, al pari delle code e delle bocche, sono almeno due e che il vortice mortale della rotazione combinata amico/nemico sembra non voler essere attività temporanea di conoscenza di sé, ma unica prassi costituente e costituita di rapporti di forza che si contrappongono. Se il cane si morde la coda per prendere atto gioiosamente della sua esistenza, l’umanità orfana di se stessa utilizza la guerra per mettere in discussione la sua stessa essenza. Perché, e qui entriamo nel campo del parossismo paradossale, le ragioni che giustificano la guerra non saranno mai in grado di poter legittimare i danni che essa produce, ma i danni indotti (morte indistinta e distruzione generalizzata) finiranno inevitabilmente con il generare quell’odio che sarà benzina per le guerre in divenire.

La guerra genera guerra e così facendo diviene corso naturale della storia che contempla momenti temporanei di tregua. Cullarsi arrendevoli sull’abitudine storica alla guerra, sul fatto cioè che siano state le guerre, da che mondo è mondo, a fare il mondo, significa legittimare l’idea di un sistema/giungla in cui la sopraffazione vince sulla coabitazione, l’urlo sull’ascolto, il forte sul debole e soprattutto la morte sulla vita. Ribaltare il punto di vista è oggi indispensabile perché se è falso il concetto che per avere la pace bisogna fare la guerra è invece innegabile il fatto che dove c’è pace, dove si costruisce pace non si avverte il bisogno della guerra. Perché la pace non è pio desiderio irrealizzabile che cade dal cielo, ma faticosa prassi da esercitare in terra. La guerra è via sbrigativa da contrapporre alle contraddizioni della complessità, la pace è strada impervia che prende atto della complessità cercando di dare risposta alle contraddizioni che essa inevitabilmente produce. La guerra è facilità distruttiva, la pace fatica costruttiva.

Ogni aggregato umano, dal più semplice al più complesso, porta con sé questioni endogene, dal nucleo familiare ristretto basato sul “sangue e sull’affetto” al paese più sconfinato che racchiude differenze etniche, climatiche, religiose e finanche di fuso orario, la relazione di potere tra umani genera problemi. Sta all’essere umano nelle sue più svariate forme aggregative (semplici e complesse, ristrette e illimitate) decidere se prendere atto dello stato delle cose e trovare di volta in volta risposte a problemi che genereranno altri problemi che vorranno altre risposte o negare la realtà utilizzando il metro regolatore della forza come unica “cura” al moltiplicarsi naturale dei dilemmi.

La pace non può essere augurabile conseguenza dell’imprescindibilità della guerra, ma sua negazione attraverso le pratiche della diplomazia e del disarmo. Un pacifismo che concorre al riarmo in nome e per conto della “pace giusta”, questo sì concetto etereo svuotato del minimo senso di realismo, altro non è che guerra mascherata. E questo mondo non ha bisogno né di maschere, né di guerra, ma di donne e uomini che siano in grado di rivendicare giustizia e benessere per tutti e per ciascuno, sottraendosi una volta per tutte all’atavico richiamo della sopraffazione sull’altro. Il freddo nelle ossa generato dalla mostruosità della guerra finisce con l’avvolgere incurante tempo e spazio, coniugando cinico presente e futuro dell’umanità nell’intervallo infinito di un globo in cui terra e acqua sono confini arbitrari e non luoghi di incontro e migrazione. In cui ogni guerra altro non è che preludio ad altra guerra, con la pace come intervallo necessario dettato dalla ritmica macabra di uno spartito che non contempla speranza.

Nella foto, Bucha, Ucraina. Foto Reuters di Alex Kent tratta dal profilo Flickr del Parlamento della Repubblica d’Irlanda

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