Una barca a vela solitaria nel mare
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La deriva governista

 

La convinzione che una persona eletta con un gran numero di voti in un’assemblea rappresentativa abbia per ciò stesso conquistato una sorta di diritto di prelazione ad essere scelta per un ruolo di governo, sebbene infondata è così diffusa che queste poche righe non avranno la forza di smontarla. Vale però la pena metterle a verbale per almeno tre motivi. Il primo è quello di sottrarsi esplicitamente alla costruzione di un immaginario così falsato ma al tempo stesso così pervasivo da diventare quasi imposto in maniera coatta. Il secondo è che quella convinzione è stretta discendente del principio maggioritario, che rende la vittoria quantitativa un elemento di voracità che inghiottisce tutto il resto, finendo per schiacciare la democrazia nella monodimensione di prova muscolare. Beninteso, la democrazia rappresentativa, anche quella che scaturisse dal più proporzionale dei sistemi elettorali, è fondata sui rapporti di forza. Il fatto è che in questa sua versione parossisticamente maggioritaria scompaiono, o per lo meno scoloriscono pesantemente, i principi di rappresentanza, competenza, le possibili dialettiche. Il terzo motivo è che da tutto ciò discende un accento così smodatamente posto sul governo, da relegare le funzioni di legislazione e controllo a un livello ancillare.

Descrivere l’ovvio è avvilente quanto spiegare il senso di una battuta, ma vista la diffusa e niente affatto inedita sbornia da preferenze, forse è il caso di farlo per tentare di ristabilire un minimo di riallineamento con la realtà. Nelle recenti elezioni regionali, fatte salve le figure delle candidate e dei candidati alla presidenza, tutte le persone che si sono proposte in una delle tante liste a loro supporto l’hanno fatto chiedendo voti per rappresentare elettori ed elettrici all’interno dell’assemblea legislativa. Non c’è nessuna norma, e neanche nessun collegamento razionale che porti a concludere che un candidato o una candidata che abbiano raccolto migliaia di preferenze per entrare a Palazzo Cesaroni debbano automaticamente finire nella Giunta regionale. Pensarlo o darlo addirittura per scontato è la conseguenza distorcente di un miraggio in base al quale spesso vengono assegnati ruoli diversi rispetto a quelli per cui ci si è candidati nella realtà. Ma quello che colpisce di più, è che sotteso a tutto ciò c’è un forse inconsapevole, e non per questo meno pericoloso, pesante ridimensionamento del ruolo della rappresentanza all’interno dell’assemblea, che è poi quello che dà un senso alla democrazia rappresentativa, ben più del governo stesso. Il non detto, infatti, è che restare senza un incarico assessorile nonostante migliaia di preferenze raccolte equivale a una bocciatura. Cioè: fare il consigliere o la consigliera, elaborare leggi, controllare l’operato del governo, avere la possibilità di convocare in audizione esponenti della società civile per comprendere fenomeni e governarli attraverso l’adozione di misure, mantenere rapporti con il territorio; ecco, tutto questo sarebbe una diminutio. Si tratta di una visione che svilisce tanto la democrazia quanto la politica tout court.

C’è un’altra questione, quella delle competenze. Si può essere bravi a rappresentare, e raccogliere centinaia o migliaia di voti – seppure non è prova esaustiva di essere in grado di farlo – è un buon punto di partenza. Ma non è detto che si abbiano competenze per governare a livello regionale una determinata materia. Così come una persona particolarmente preparata in un certo ambito, potrebbe magari saper gestire un assessorato ma potrebbe avere difficoltà a rappresentare gli interessi degli elettori all’interno di un’assemblea. Si tratta di competenze che possono coincidere nella stessa persona. Ma si tratta anche, fondamentalmente, di competenze in qualche modo complementari, che nel nostro ordinamento afferiscono a due poteri differenti, almeno per come la scienza politica è venuta maturando negli ultimi due-tre secoli. Invece, nell’impazzimento collettivo di cui siamo vittime, siamo arrivati al punto che a una persona che ha preso un sacco di voti, si è quasi obbligati a trovare un posto in Giunta. Si tratta di una piega pericolosa, è opportuno scandirlo con chiarezza. Per questo sarebbe bene riacquistare capacità di discernimento per ristabilire che rappresentanza e governo sono entrambe fasi di cui la democrazia rappresentativa ha necessità. Sennò si scade in altro. E il problema è che a rimetterci, in quest’ultimo caso, è l’interesse generale.

Foto dal profilo Flick di Andrea D’Angiolo

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