Osservare alcuni dati di realtà può aiutare a capire quanto siano infondate, quando non addirittura tossiche, alcune narrazioni. In Umbria, secondo i dati forniti dall’Istat, nel 2021 il 25 per cento del patrimonio immobiliare non era abitato. Eppure, informa lo stesso istituto nazionale di statistica, in quello stesso anno nella regione sono stati tirati su 296 edifici a scopo residenziale per un totale di 95 mila metri quadrati complessivi di superficie: 639 nuove abitazioni con dentro 2.409 stanze nonostante ci fossero già 126.922 appartamenti vuoti. Nel 2022 si è replicato con 359 nuovi edifici residenziali per oltre 118 mila metri quadrati complessivi da cui sono stati ricavati 761 appartamenti.
L’Umbria, se si escludono aree limitate, non è una di quelle terre dove ti costruisci la casa, o l’acquisti, per andarci a passare le vacanze estive, e il fenomeno delle seconde case, cioè di quelle abitazioni originarie che si trovano in campagna o in montagna e sono state successivamente abbandonate per trasferirsi in città, pur presente, non sappiamo quanto sia in grado di spiegare il fatto che una casa su quattro risulti non abitata. Infine, al netto della questione degli affitti in nero, è del tutto evidente che la crescita del costruito non è neanche lontanamente giustificata da reali bisogni abitativi. Eppure la crescita di quei volumi va ad incrementare il Pil, che è l’alfa e l’omega per il giudizio sullo stato di benessere di una comunità. Ed è una crescita altrettanto inesorabile anche per quanto riguarda gli edifici non residenziali, quelli cioè dedicati ad attività di servizi e commercio, che sono aumentati rispettivamente di 122 e 144 unità nel 2021 e nel 2022 per un totale di 133 mila metri quadrati complessivi.
Se si allarga la prospettiva si capisce anche meglio la tossicità del fenomeno e della relativa narrazione che lo glorifica. Nel periodo 2010-2022 in Umbria, tra edilizia residenziale e commerciale sono stati realizzati complessivamente 6.280 edifici che hanno mangiato quasi 3 milioni di metri quadrati di superficie e occupato 12 milioni di metri cubi di spazio. Se si prende in considerazione la sola edilizia residenziale, sono state realizzate 10.469 nuove abitazioni. Il fatto è che tutto questo è successo nonostante nello stesso periodo le persone residenti siano calate di 20 mila unità.
Passando all’edilizia non residenziale lo spartito non cambia. Secondo l’osservatorio nazionale sul commercio l’Umbria, a fronte di meno dell’1,5 per cento della popolazione nazionale residente, conta il 4 per cento della superficie totale dei grandi magazzini e il 2,3 per cento di quella dedicata ai supermercati. Tanto che in questa regione ci sono circa 600 metri quadrati ogni mille abitanti dedicati alla grande distribuzione, mentre la media nazionale è di 418 metri quadrati ogni mille persone. E a proposito di “pesi”, nonostante il fenomeno del “costruire a prescindere” sia una tendenza nazionale, il numero di edifici realizzati e le superfici di terreno consumate nel periodo preso in esame (2010-2022) hanno sempre un’incidenza maggiore rispetto a quella della popolazione residente in regione sul totale nazionale.
Tutti questi dati hanno dei risvolti che si possono rinvenire in maniera macroscopica constatando il gran numero di capannoni abbandonati e/o di locali commerciali vuoti, in affitto o in vendita, cosa che per quanto riguarda le abitazioni vuote è di più difficile valutazione empirica. Sta di fatto che al 18 luglio scorso, il sito quimmo.it, specializzato nella vendita di immobili, contava oltre 40 capannoni industrial-artigianali in vendita in tutta la regione. Dato a cui si possono aggiungere, ai fini della narrazione che si sta tentando di smontare qui, i circa 500 immobili residenziali e 100 commerciali per cui sono in corso aste giudiziarie in questo stesso periodo.
Il fenomeno del costruito va insomma a braccetto con quello dell’abbandonato, o comunque del non più necessario, quando addirittura del non terminato, con imprese che per i più svariati motivi occupano terreno e vista con scempi di scheletri di edifici lasciati a metà senza per questo pagare nulla alla comunità a cui hanno sottratto spazio inutilmente. Non è raro osservare, nella stessa area artigianal-commerciale, immobili lasciati al degrado accanto ai quali fioriscono capannoni nuovi di zecca, edificati in tempi record e con la medesima destinazione d’uso, o comunque con all’interno attività che potevano essere svolte a pochi metri di distanza riconvertendo l’abbandonato. Solo che questioni di proprietà, curatele fallimentari e quant’altro, sono lasciate a se stesse dalle amministrazioni pubbliche in ossequio al principio del lasciar fare al mercato che in questi casi è deleterio per l’interesse generale.
L’area a cavallo tra i comuni di Corciano e Magione è in questo senso una vetrina privilegiata per osservare questo tipo di fenomeno. E in questo senso non dev’essere un caso il fatto che il territorio a ovest del capoluogo di regione sia tra quelli con il più alto consumo di suolo in Umbria. Se in Umbria la percentuale media di suolo cementificato è del 5,26 per cento, secondo quanto registra l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra), nel comune di Corciano la percentuale di suolo mangiata da cemento e asfalto s’impenna al 14,8 per cento, e nel solo periodo 2021-2022 in quel municipio gli ettari divorati dalle nuove costruzioni sono stati 5,34. Cioè quasi quanto quelli consumati a Terni. Solo che il capoluogo dell’Umbria del sud conta cinque volte la popolazione residente del comune cuscinetto tra Perugia e Magione, diventato nella sua parte bassa una immensa, indistinguibile area commerciale nonché terra di lottizzazioni.
Il nuovo costruito insomma, non è solo inutile, e già questo sarebbe sufficiente per interrogarsi pubblicamente sul fenomeno e sul perché se ne permette la realizzazione con una tale frequenza. L’ulteriore problema che pone è che le nuove cementificazioni vanno anche a impermeabilizzare porzioni di terreno naturale che servirebbero invece come il buon senso nel capo dei decisori politici. A fronte degli eventi estremi a cui gli scienziati ci avvertono da tempo che andremo incontro con sempre maggiore frequenza a causa dell’emergenza climatica – precipitazioni intense concentrate in brevi periodi alternate a periodi siccitosi sempre più lunghi – poter usufruire di terreno in grado di assorbire da un lato e che contribuisca, attraverso il verde, a mitigare le temperature dall’altro, rischia di diventare un autentico privilegio.
In questo caso siamo insomma davanti a un conflitto solare: da un lato quello dell’interesse generale, che imporrebbe un’autentica moratoria per quanto riguarda le nuove costruzioni, vista anche la loro sostanziale inutilità, e un generale riutilizzo e riqualificazione dell’esistente per metterci in grado – tutti – di reggere l’urto dell’inasprimento climatico; dall’altro quello dei pochi che invece traggono profitto dall’inutile e dannosa impermeabilizzazione del suolo ma hanno risorse e agganci utili per garantirsi di continuare a farlo. Non si tratta di “bloccare il progresso”, come recita la vulgata tossica amplificata dai pochi con interessi e tante risorse da poterla alimentare, ma di qualcosa che ha a che fare con la qualità della vita generale e forse addirittura, in prospettiva, con la prospettiva della sopravvivenza della razza umana sulla Terra. «Il consumo di suolo – dice l’Ispra – è un fenomeno associato alla perdita di una risorsa ambientale fondamentale, dovuta all’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale a seguito di un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative, infrastrutturali e di trasformazione del territorio». Lo stesso istituto definisce anche i «servizi ecosistemici» del suolo naturale e le sue funzioni. Tra i primi figurano «servizi di approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, materie prime ecc…), servizi di regolazione e mantenimento (regolazione del clima, cattura e stoccaggio del carbonio, controllo dell’erosione e regolazione degli elementi di fertilità, protezione e mitigazione dei fenomeni idrogeologici estremi, conservazione della biodiversità) e servizi culturali e ricreativi». Tra le funzioni ci sono quelle di filtro degli inquinanti e di riserva naturale di acqua e quelle di assicurare il ciclo dei nutrienti alla flora, a sua volta preziosa per immagazzinare anidride carbonica.
Quella dell’insensato costruire insomma, non è solo una pratica menomata e menomante come in genere tutte quelle che hanno il solo profitto come stella polare, ma sta contribuendo a minare la vita sul pianeta come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. Ce ne sarebbe abbastanza affinché politica e opinione pubblica ne prendano adeguatamente coscienza. A partire dal livello locale, cui in prima battuta spettano le decisioni su queste materie.
Tutto giusto, occorre comunque considerare che per motivazioni tecniche: nuove normative, sicurezza, costi, e dimensioni i vecchi impianti industriali e commerciali non sono riutilizzabili
Bisognerebbe incentivare il recupero. Chiaro che fino a che il costo di acquisto+quello di riqualificazione (energetica, impiantistica e normativa), sarà simile al costo del nuovo, non usciremo dalla cementificazione).
Ottimo articolo! Da un anno abbiamo fatto la scelta di acquistare una delle “gloriose” casette singole di via del lavoro frutto di una visione , quella dell’architetto Cucchia, che era antesignana della generazione di comunità attiva e partecipe. Un’area a cavallo tra Fontivegge e Piazza Birago che l’insediamento di famiglie e residenti, come in parte già accade, se vissuta e curata, potrebbe dare risposte e soluzioni al disagio sociale che vi serpeggia. E invece: abbandono e non cura da parte di Ater e Comune, con opere di consolidamento e rifacimento di fognature, consolidamento dell’area argillosa… i cittadini, per quanto attivi, non possono risolvere in autonomia. Che dire??!! Vuole essere una testimonianza